La Brexit e un appunto dell'ambasciata (con risposta)

Al direttore - Ho letto con attenzione il suo editoriale del 29 agosto, “La Brexit fa male e per la Gran Bretagna può solo essere hard”, che parte da alcuni dati economici e diverse – le ennesime – previsioni nefaste rispetto al futuro che attende il Regno Unito fuori dall’Unione europea per compiacersi della lezione impartita all’economia britannica da quella che viene descritta come la cruda realtà cui sembra ormai condannata. Nel riportare l’andamento di pur non trascurabili indicatori come quello dei mercati azionari o del tasso di cambio della sterlina (una moneta forte, se ne discute in queste ore a proposito dell’euro, non sembra peraltro essere garanzia di crescita) si omettono a mio avviso alcuni elementi fondamentali. Lo stesso vale per il richiamo ai reiterati annunci da parte di operatori del mondo finanziario circa sempre più imminenti abbandoni della City alla volta di nuove e più allettanti destinazioni continentali. Ma la fotografia che se ne trae è inevitabilmente parziale. I fondamentali dell’economia britannica sono rimasti solidi negli ultimi mesi, con un tasso di disoccupazione, ai minimi storici dal 1975, registrato dall’Office for National Statistics al 4,4 per cento a giugno di quest’anno (era al 4,9 a luglio 2016). La crescita del pil è attesa al 2 per cento a fine 2017 (fonte HM Treasury). A dispetto di molte Cassandre, il Regno Unito si è confermato il primo mercato europeo per investimenti esteri diretti tra il 2016 e il 2017 (dati del Department for International Trade, luglio 2017), con un incremento del 2 per cento nel periodo post referendum rispetto all’anno precedente e oltre 2.200 nuovi progetti di investimento da tutto il mondo. Tra i maggiori investitori, numerose multinazionali del settore automotive (Bmw, Rolls-Royce, McLaren, Toyota, Nissan, Jaguar Land Rover), It e Tlc (Apple, Computershare, Vodafone) e altri (Boeing, McDonald’s, Dyson) garantiranno la creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro nei prossimi anni.     In controtendenza poi rispetto a quanti paventavano l’abbandono degli atenei britannici da parte degli studenti stranieri, gli ultimi dati Unesco rivelano che le università britanniche restano tra le preferite al mondo, in particolare se si pensa che il numero di italiani iscritti oltremanica è continuato a crescere negli ultimi mesi fino a raggiungere la cifra record di quasi diecimila, più che in qualsiasi altro paese, europeo e non. Fin dal loro insediamento nel luglio dello scorso anno, il primo ministro Theresa May e gli altri esponenti del governo britannico hanno riconosciuto la sfida posta dall’esito del referendum, le cui reali conseguenze saranno tuttavia chiare solo alla fine dei negoziati. Dispiace notare come l’analisi proposta al lettore non vada oltre il compiacimento per l’andamento di alcuni indicatori che forniscono un’istantanea comunque parziale della situazione, e sottovaluti l’importanza che i negoziati siano affrontati con spirito flessibile e collaborativo, come il governo di Londra ha da sempre dichiarato di voler fare. Nell’auspicio di vedere pubblicate queste righe, resto a disposizione per un confronto costruttivo su queste tematiche e Le invio distinti saluti.

Pierluigi Puglia, Head of Communications & Public Affairs dell’ambasciata inglese in Italia

 

Grazie della sua lettera, molto utile e interessante. Lei ha ragione quando dice che le reali conseguenze della Brexit saranno chiare solo alla fine dei negoziati e ha ragione a ricordare che la Gran Bretagna non è certo sull’orlo del collasso. Faccio fatica però a credere che sia possibile sottovalutare quello che è successo negli ultimi mesi, all’indomani della vittoria del leave. Alcune cose non sono ancora cambiate, e sono quelle che lei segnala, ma altre sono già cambiate, e sarebbe poco avveduto ignorarle. Alcuni dati li abbiamo già accennati. L’Inghilterra è l’unico paese del G7 a non crescere rispetto all’anno precedente (meno 0,3) ed è l’unico per il quale le stime di crescita sono state riviste al ribasso. L’indice che misura il valore delle azioni della Borsa di Londra ha perso il 17 per cento dal giorno successivo alla scelta del leave. La Banca centrale inglese ha portato i tassi di interesse al livello più basso degli ultimi 322 anni. Il pound ha perso il 12 per cento del suo valore. La società di consulenza Oliver Wyman, pochi giorni fa, ha calcolato che gli effetti del leave avranno un impatto importante sui posti di lavoro nell’investment banking e i posti di lavoro che rischiano di saltare sono circa 40 mila e il giro di affari che verrà dirottato dalla Gran Bretagna alla Ue sarà di 20 miliardi di sterline. E la stessa indicazione, a inizio agosto, l’ha data anche il governatore della banca centrale inglese, Mark Carney, che rivolgendosi al governo ha messo in chiaro un po’ di cose:  “There is an element of Brexit uncertainty which is affecting the wage bargaining. Some firms, potentially a material number of firms, are less willing to give bigger pay rises given that it is not as clear what their market access is going to be over the course of the next few years”. Questo per dirle che ovviamente la Gran Bretagna non è sull’orlo del collasso ma che ci sono infiniti dati che già oggi indicano che l’allontanamento dall’Europa è destinato a rallentare l’economia inglese in un modo chiaro e lineare. Succede già oggi che la Brexit è ancora in divenire. Possiamo solo immaginare cosa capiterà quando la Brexit diventerà realtà.

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