La Nazionale e le ricette sbagliate del sovranismo calcistico
Al direttore - Ventura: anche il Brancaccio comunque è finito male.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Quando c’era Lui, caro lei… Lui arrivava in finale con due squadre. Berlino come Vinovo. Dopo di lui il diluvio. L’unica via d’uscita, Moggi presidente della Federazione gioco calcio.
Frank Cimini
Probabilmente ha ragione Christian Rocca quando dice che più che pensare a come cambiare la Federcalcio bisognerebbe solo capire che la Federcalcio è un carrozzone statale, clientelare, inutile e dannoso e che andrebbe semplicemente chiuso. Ma al di là delle questioni tecniche ci sono altre questioni interessanti da mettere a fuoco all’indomani del collasso calcistico dell’Italia, che sono quelle che riguardano un tic tipicamente italiano che si manifesta all’indomani di un’apocalisse nazionale: la tentazione di concentrarsi sui capri espiatori senza mettere a fuoco i veri dilemmi di un problema nazionale. La Nazionale di calcio è un problema nazionale ma non lo si affronta con la chiave sovietica dell’epurazione ma la si affronta imparando a fare i conti con un altro dramma nazionale: l’incapacità di considerare il fallimento come un punto di partenza e non semplicemente l’inizio della fine. Da almeno otto anni l’Italia calcistica prova ad affrontare i suoi guai personalizzando i problemi e limitandosi a cambiare le pedine sul tavolo da gioco e da almeno otto anni cambiano le persone che guidano l’Italia ma non i problemi. Il calcio italiano si può cambiare fuggendo dal modello sovietico (Federcalcio no, grazie) e trasformando i campionati in luoghi non dove si inseriscono delle quote (le quote giovani) ma in luoghi in cui si alimenta la competizione e la concorrenza e in cui i talenti si possono formare anche grazie al confronto con le eccellenze straniere. Con tempismo e qualunquismo alcuni leader politici, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, hanno suggerito, martedì sera, di intervenire sul dramma degli stranieri nel nostro campionato proponendo una forma molto raffinata di autarchia sportiva: “Troppi stranieri in campo, dalle giovanili alla Serie A, e questo è il risultato. #STOPINVASIONE e più spazio ai ragazzi italiani, anche sui campi di calcio”. Invitiamo Salvini e compagnia a guardare le rose della Germania, della Francia e del Brasile, di contare quanti sono i campioni che giocano all’estero (o non nati nella nazione in cui giocano) per rendersi conto che dire che la colpa è degli stranieri è un modo per buttarla in caciara coerente con la missione dei sovranismi di tutto il mondo: fuggire dalla responsabilità di entrare nel merito dei problemi rifugiandosi nel bene supremo della caccia all’ultimo capro espiatorio. Orrore puro. No, grazie.
Al direttore - Ricordare la riorganizzazione bancaria degli anni 90 del Novecento – come viene, tra l’altro, fatto nell’articolo di Stefano Cingolani sul Foglio del 14 novembre – e attribuirne l’avvio a Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, esigerebbe, al di là della pur possibile discussione sull’effettività di tale avvio, che non venisse disconosciuta la paternità di quella grande operazione di ristrutturazione e di consolidamento, dovuta cioè alla Banca d’Italia di Antonio Fazio, che, con l’unico precedente nella riorganizzazione degli anni Trenta, risollevò numerose banche e il sistema che la stampa estera considerava “in agonia”. Sulle vicende, poi, del 2005, la verità storica comincia a profilarsi, anche alla luce di tutti gli accadimenti che le hanno seguite, a cominciare dalla forte inadeguatezza della legge di quell’anno, la “262”, la cui rubrica sulla tutela del risparmio ora suona abbastanza ironica . La finalità allora perseguita “anti Bankitalia” ora comincia a soffrire una nemesi storica. Del resto, ricordo bene le posizioni, ai tempi, del Foglio pienamente concordanti con queste considerazioni. Quanto poi al venir meno, nel governatorato Draghi, dei contatti preventivi sulle operazioni di aggregazione – quella prassi che Cingolani ricorda come “imprimatur” della Banca d’Italia e che tale non era, essendo il procedimento dell’informativa preventiva analiticamente disciplinato dal Comitato interministeriale per il credito e il risparmio e mirato a evitare gravi turbamenti nel mercato – solo credendo alla Befana si può immaginare che le operazioni di concentrazione tra banche siano state presentate “cotte e servite” alla Banca stessa, una volta compiutamente definite. Immaginare aggregazioni “inaudita altera parte”, cioè Bankitalia, sin dai preliminari, anzi nella sua assoluta passività, sarebbe una vera ingenuità, che si può sostenere solo volendo rimarcare a tutti i costi una differenza con la situazione precedente, magari con la finalità (non mi riferisco a Cingolani) di “èpater les bourgeois”. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia