La fede giustizialista che fa dell'uomo un orco fino a prova contraria
Al direttore - Quattro o cinque golpe e mai nessuno che avesse piazzato un carabiniere a Palazzo Chigi.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Il caso del sindaco di Mantova prefigura una nuova fattispecie di reato: concussione al fine di ottenere favori sessuali, ancorché all’insaputa della persona offesa. Anzi, quest’ultima deve fare molta attenzione, perché, se insiste nel discolpare l’indagato, rischia un’imputazione di favoreggiamento.
Giuliano Cazzola
E lei ora rischia di finire sotto processo per blasfemia: come osa criticare la nuova fede giustizialista che fa di ogni uomo accusato di molestie un orco fino a prova contraria?
Al direttore - Sul Foglio del 24 novembre Serena Sileoni ha paventato il rischio che dall’introduzione dell’equo compenso nella remunerazione delle prestazioni professionali possano scaturire effetti disastrosi sui lavoratori più deboli, effetti identificati sostanzialmente nella difficoltà di ingresso nel mercato dei servizi professionali. Secondo Sileoni l’equo compenso si configurerebbe quale tariffa o salario minimo per i professionisti e, quindi, vanificherebbe gli effetti benefici per giovani e professionisti meno avviati prodotti dalla legge Bersani. A mio parere tale ragionamento sconta due equivoci di fondo: in primo luogo l’equo compenso ha poco a che vedere con le vecchie tariffe professionali; in secondo luogo i dati mostrano inequivocabilmente che se c’è una categoria che non ha tratto vantaggio dalle “lenzuolate” di Bersani è proprio quella dei professionisti giovani e meno strutturati. Provo ad argomentare. In cosa consiste l’equo compenso? Al contrario delle tariffe obbligatorie, che fissavano valori inderogabili validi nei confronti di ogni committente (dalle grandi imprese ai consumatori), l’equo compenso è finalizzato a intervenire soltanto dove vi sia un marcato squilibrio nei rapporti di forza contrattuale, applicandosi esclusivamente, e a determinate condizioni, alle prestazioni rese nei confronti di pubbliche amministrazioni e grandi committenze. Certamente una norma migliorabile, ma che ha l’indubbio pregio di fissare un principio di una estrema banalità se fosse effettivamente praticato, ovvero che ogni lavoratore – indipendentemente dalla forma in cui svolge la propria prestazione – ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del proprio lavoro. A maggior ragione quando il primo committente italiano, la Pubblica amministrazione, si rende inadempiente sia nella misura della remunerazione, continuando a proporre incarichi gratuiti o con compensi simbolici, sia nei tempi, biblici, di pagamento. Sfatiamo, inoltre, il falso mito secondo il quale la legge Bersani avrebbe favorito i giovani professionisti a scapito dei colleghi in età più avanzata: se, infatti, i redditi medi annui dei professionisti nelle fasce di età 30-35 e 35-40 anni continuano ad attestarsi su valori assoluti che rimangono molto bassi (rispettivamente 17 mila e 24 mila euro), è significativo sottolineare come dal 2007 al 2015 sia cresciuto proprio il gap nei confronti dei più anziani. Ad esempio mentre nel 2007 un professionista 30-35 enne conseguiva un reddito pari al 35,9 per cento di quello di un 55-60enne, nel 2015 tale valore raggiungeva soltanto il 34,4 per cento. Obiettivamente non mi sembra che l’applicazione dell’equo compenso possa minare la libera concorrenza, essendo uno strumento che ne corregge alcune possibili distorsioni, né che annacqui la propensione al rischio dei professionisti. Piuttosto, premesso che i professionisti sono lavoratori autonomi che sopportano autonomamente il rischio di “impresa”, andrebbe superata la pratica di considerarli alla stregua dei lavoratori dipendenti quando c’è da concorrere alle opportunità, inclusi gli sgravi fiscali, concesse alle imprese, e quali imprese quando si tratta di attribuire tutele e bonus ai lavoratori.
Andrea Dili
Al direttore - Nell’editoriale pubblicato giovedì 23 novembre si citava una frase pronunciata dal commissario straordinario Luigi Gubitosi davanti alle commissioni riunite della Camera dei deputati, sottolineando il rischio che il prestito ponte concesso dallo stato ad Alitalia venga considerato un “regalo” e non una somma da restituire. Estrapolate dal contesto, le parole (“La compagnia non ha, a memoria recente, mai avuto così tanti soldi”) potevano indurre in questo equivoco. Inquadrata nel ragionamento, invece, la frase aveva un duplice obiettivo: da un lato rassicurare il mercato sulla solidità finanziaria della Compagnia; dall’altro rimarcare l’attenzione alla cassa dell’attuale gestione, proprio nella consapevolezza che alla scadenza il prestito dovrà essere restituito. L’obiettivo dell’amministrazione straordinaria, oltre che garantire la continuità aziendale, è quello di trovare il migliore investitore per Alitalia. Per convincere i potenziali acquirenti, però, è necessario rendere la Compagnia appetibile attraverso un’azione di risanamento, realizzabile unicamente se si continuerà a vendere biglietti aerei. E per farlo è indispensabile rassicurare passeggeri e agenzie di viaggio sul fatto che Alitalia volerà anche in futuro. In conclusione, solo gestendo la Compagnia con una prospettiva di lungo termine la si potrà vendere bene e nel più breve tempo possibile. E solo così il prestito pubblico potrà essere restituito ai contribuenti.
Ufficio Stampa Alitalia