Consultazioni? Fate piano. Un programma per contare in Europa (firmato Gattuso)
Al direttore - Raggiunto accordo su contratto pluriennale per realizzare programma e farsi valere in Europa. Complimenti a Gattuso.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Caro Cerasa, in un editoriale del Foglio del 5 corrente, si scrive, a proposito della formazione del nuovo governo, che la “ricreazione sta finendo”. Siamo, allora, alla fine dell’invito della Ciliegia di qualche tempo fa al “fate piano”? E come superare l’incipiente “impasse”, mentre si accampano designazioni a premier (Lega e 5 stelle) che sarebbero state volute dal voto, dal quale si fa discendere (Pd) anche una agnostica e atarassica collocazione preventiva all’opposizione? Nello stesso editoriale poi, per connessione di argomenti, si afferma, scrivendo della successione a Draghi che la Germania ora sosterrebbe non Jens Weidmann, ma un candidato nordico qual è Erkki Liikanen o l’olandese Klaas Knot. L’apertura con più di un anno e mezzo di anticipo di una sorta di campagna elettorale per il vertice della Bce, orchestrata da grandi giornali europei e alla quale non sarebbero estranei gruppi finanziari, oltre agli interessi dei paesi che ritengono di avere il candidato giusto, è un fatto grave, ma sembra ormai inarrestabile. In questo caso, purtroppo si fa “molto presto” laddove sarebbe più che doveroso un “fate piano”, anzi lentissimamente. I nomi che vengono sfornati spesso obbediscono a mere esigenze tattiche, nell’intento di proporre altri personaggi di pari passo con l’avvicinamento alla scadenza del mandato di Draghi. In ogni caso, rimanendo ai suddetti nomi, c’è da dire che è sempre preferibile l’originale, rispetto alla copia. Molto meglio avere a che fare con un personaggio (Weidmann) sicuramente competente, ma roccioso, teutonico, che etichettare come falco sarebbe addirittura un “minus”, ma con cui si può ingaggiare anche un forte scontro dialettico, piuttosto che ricorrere a copiature. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia
La ricreazione finisce proprio per le ragioni del fate presto: più le consultazioni saranno lunghe e più per i partiti di protesta sarà necessario trovare una via per formulare una proposta. Il tempo aiuta a smussare gli angoli. E chi non è capace di smussarli sa che essere incapaci a fare un governo un domani potrebbe persino pesare in vista di nuove elezioni. Nel 1996, per far nascere il governo Dini ci vollero 127 giorni. Nel 1972, per far nascere il primo governo Andreotti ci vollero 121 giorni. Nel 2008, per far nascere il secondo governo Prodi ci vollero 104 giorni. Qui siamo appena a trenta giorni dal voto. Le consultazioni sono cominciate da tre giorni. C’è tempo. Fate piano.
Al direttore - L’uscita dal Novecento, proclamata a più voci con intenti generosi, può inciampare sulla ripetizione di vecchi errori. Il pericolo è sempre incombente. Si è evocato il “diciannovismo” (Mieli), ovvero il clima e lo spirito pubblico del 1919, quando in mancanza di una stabile maggioranza parlamentare andò rapidamente in crisi il regime liberale. Aspre rivendicazioni popolari, mescolate a sentimenti anti istituzionali, determinarono il crollo della fiducia nella classe dirigente al potere, come pure nei partiti d’opposizione, incapaci di accordarsi ai fini di un’alternativa di governo. Se ne avvantaggiò Mussolini, ben presto padrone del gioco, con il corredo a seguire di un Ventennio autoritario e illiberale. Oggi, fortunatamente, non avvertiamo il pericolo di un nuovo fascismo. E’ tuttavia sbagliato ignorare la lezione di vicende passate, chiudendo gli occhi su alcune analogie tra fasi di crisi lontane tra loro. Nondimeno, Lega e Cinque stelle possono prescindere da una coscienza di tipo storico. Sono movimenti che puntano a organizzare su altre basi la guida del paese, facendo a meno del retaggio di tradizioni politiche. Si muovono lungo il sentiero calpestato a suo tempo dall’armata di Berlusconi, invisibile e sconosciuta fino ad allora, dichiaratamente senza debiti con il passato. Insieme, Lega e Cinque stelle, continuano l’operazione di Forza Italia e ne rafforzano oltre misura la vocazione al pragmatismo assoluto, evidente incunabolo di ogni potere personalizzato. Ai riformisti invece è vietato pensarsi e comportarsi alla stregua di viandanti senza documenti di riconoscimento. Il legame con la rappresentazione di un’Italia libera e democratica, nata dalla Resistenza e vestita dei panni nobili della Costituzione, non è rescindibile in alcun modo. Per tale ragione, quanto più essi sapranno accogliere e riconoscere che il valore dell’eredità comporta, tanto più potranno ambire a riconquistare il consenso perduto. Questo, in effetti, è il disagio che avvinghia il Pd, all’opposizione dopo il voto del 4 marzo e destinato perciò a fungere da apripista di una futura alleanza antipopulista e antisovranista; disagio, cioè, che rivela il fatto di non avere il senso di una chiara identità politica e di conseguenza la misura di un preciso ancoraggio storico. A rovescio, il Pd dovrebbe riannodare i fili della cultura riformatrice, guardando anche all’opera di De Gasperi – a breve ricorre il 70° anniversario del 18 aprile – grazie alla quale l’Italia ritrovò, come si sa, energie e slancio per dare alla Ricostruzione il significato e il valore di un cambio d’epoca. Fu una stagione complessa e feconda, che aprì l’accesso, impossibile fino ad allora, a condizioni di benessere e dignità per ampie fasce di popolo. Questa è la storia, e in verità una storia di successo, frutto dell’incontro sul terreno democratico e nell’esperienza di governo tra cattolici laici e socialisti: per così dire, il riformismo reale. E adesso? Ecco, non si tratta di riportare indietro le lancette del tempo. I problemi attuali richiedono evidentemente un grande sforzo di aggiornamento della “proposta politica di De Gasperi” (Scoppola). Altrimenti, a quale prospettiva votarsi? Non di certo convince, pena la spaccatura irrimediabile del paese, il consolidarsi di questo abbozzo di bipolarismo centrifugo, dominato da istanze confuse e scelte inattendibili. Esiste, dunque, tra Di Maio e Salvini uno spazio che va riorganizzato a fondo, anche con il contributo di nuove “minoranze profetiche di choc” (Maritain). Non bisogna pertanto indugiare, ma neppure precipitarsi a modellare gli scenari di domani o dopodomani. Sta di fatto che il progetto di una nuova coalizione democratica e riformatrice passa attraverso l’appello a un paese che non si rassegna alla dialettica tra capipartito brillanti e sagaci, ma imprigionati nello scafandro delle loro esorbitanti promesse elettorali.
Lucio D’Ubaldo