Sì: ripartire dal modello francese. Macron e la vera questione sulla fede
Al direttore - La democrazia dei flick.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - In questa legislatura sembrano essere possibili solo equilibri di governo di dubbia efficacia e durata, nonché di difficile comprensibilità per gli elettori. Non ci interessa in questa sede capire quali possano essere gli esiti concreti. D’altronde il ricorso a nuove elezioni sarebbe con tutta probabilità non risolutivo. Non c’è nulla di imprevedibile né imprevisto in questo esito, prefigurato a Orvieto nell’assemblea dell’associazione riformista Libertà eguale del dicembre scorso, che dipende strettamente dal risultato del referendum costituzionale e dalla strettamente consequenziale sentenza della Corte costituzionale. A questo punto, per dare un senso alla legislatura, indipendentemente dalle questioni relative al governo, soprattutto il Pd, che ha animato la battaglia referendaria per il Sì, ha il dovere di proporre una soluzione di sistema per il futuro che, per quanto possibile, non si limiti solo all’ennesimo intervento sulla legislazione elettorale. Evidentemente, dal punto di vista politico, i contenuti della riforma bocciata non possono essere riproposti tali e quali, né per estensione né per contenuto. A questo punto, in relazione alla forma di governo, essendo stata bocciata una soluzione neo-parlamentare, sembra ragionevole proporre l’unica altra alternativa da democrazia governante, quella semi-presidenziale. Per questa ragione ho depositato a inizio legislatura la proposta che le chiedo di pubblicare e che riproduce la logica del sistema francese come aggiornato nel 2000, ponendo in stretta sequenza l’elezione presidenziale e quella parlamentare. In questo modo è favorita la formazione di una maggioranza parlamentare omogenea a quella che ha eletto poco prima il presidente, però non passando per premi ma per l’elezione in collegi uninominali. La proposta inserisce l’elezione diretta nel sistema costituzionale già vigente, senza modificare i poteri presidenziali, in quanto il presidente italiano a differenza di tutti gli altri capi di stato non eletti direttamente ha già sulla Carta poteri sufficienti a incidere sul governo, a cominciare da nomina e scioglimento anticipato. Già nel secondo sistema dei partiti questi poteri sono stati spesso utilizzati in senso forte per garantire il funzionamento del sistema, tanto che autori stranieri come Lauvaux e Le Divellec hanno adattato per l’Italia la definizione di “forma di governo parlamentare a correttivo presidenziale” pensata originariamente per la Francia. Se tale ruolo forte diventa stabile e non eccezionale, come sembra ancor più in questa fase, nonostante qualsiasi ritrosia prudenziale dei presidenti in carica, esso porta con sé logicamente l’elezione diretta, come legittimazione più coerente per esercitarlo. Del resto sessant’anni fa in Francia prima venne l’esercizio di quei poteri e qualche anno dopo l’elezione diretta come sua conseguenza logica. Non abbiamo per fortuna un’emergenza bellica come quella che travolse tra aprile e maggio 1958 i governi deboli di Gaillard e Pflimlin, ma abbiamo un indubbio problema di tenuta complessiva del sistema anche rispetto alle prossime scadenze europee che richiedono lungimiranza e altruismo. A tutti. Sul futuro delle istituzioni più che sul prossimo governo.
Stefano Ceccanti
L’unico piano B che può esistere per il Pd è quello di ripartire da dove il Pd si è fermato. Il 4 dicembre. La riforma costituzionale. La semplificazione del sistema istituzionale. Il doppio turno. Il modello francese. Se il piano A dovesse fallire (il bacino Di Maio-Salvini) non resterebbe che il piano B. E l’unico piano B sensato oggi potrebbe essere questo.
Al direttore - Caro Cerasa se, come scrive il Foglio del 10 aprile, vi è una danza di squali intorno a Tim e sue vicinanze, allora l’intervento della Cassa depositi e prestiti – che alcuni criticano come se si trattasse della violazione della sacralità del mercato, che sarebbe impersonato dai suddetti squali, evidentemente – non solo è stato opportuno, ma va ritenuto anche doveroso. Conosco la posizione della Ciliegia che correttamente si pone il problema non della legittimità dell’intervento, che reputa assodata, ma dei rischi in generale che si potrebbero correre a seconda di chi, per esempio al governo, potrà maneggiare gli strumenti di intervento pubblico in economia. Intanto, la battaglia su Tim procede a colpi di fioretto a opera di stuoli di giuristi e legali, fra i migliori in Italia, da una parte (Vivendi e la società medesima) e dall’altra (Elliott, sindaci) la dicono lunga sulla posta in palio e dovrebbero aprire gli occhi ai suddetti critici che evidentemente vorrebbero lo stato come “guardiano notturno”, magari dormiente, non vegliante: salvo poi salire in cattedra dopo che, per esempio, si verificano casi di acquisizioni di rilievo dall’estero. Anche la Cdp, comunque, potrà dare un contributo, pur nella limitatezza della partecipazione, a falciare l’erba sotto i piedi dei critici, chiarendo le finalità dell’intervento, la strategia che ritiene preferibile per Tim, i percorsi per renderla praticabile, il ruolo e la composizione della governance, le scelte sulla rete e le connessioni con Open Fiber. Pure una partecipazione che si definisse solo o principalmente finanziaria presuppone di necessità una visione dei problemi e delle strategie del soggetto partecipato, mancando la quale sarebbe un investimento aleatorio, cosa che, invece, non è affatto nel nostro caso. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia
Un caro amico mi ha segnalato che quando lo stato entra nel mercato non è mai un buon segno per il mercato. In linea di massima l’amico ha ragione ma nel caso specifico di Tim l’ingresso di Cdp potrebbe diventare non un ostacolo ma un sostegno al mercato perché permetterebbe di portare a termine un’operazione per la quale il mercato non potrebbe che ringraziare: lo scorporo della rete da Tim, la creazione di una società unica con Open Fiber, la quotazione di questa società. Se lo stato entra nel mercato per creare le condizioni per avere un mercato più forte, ben venga. Se lo stato entra nel mercato per creare le condizioni per avere un mercato meno forte, diventa un problema. Con Di Maio e Salvini, su questo fronte, purtroppo non c’è da essere molto ottimisti.
Al direttore - Sentir dire da Emanuel Macron, presidente della Francia e di tutti i francesi, che una chiesa che pretende di disinteressarsi delle questioni temporali non andrebbe in fondo alla sua vocazione, fa un certo effetto. Detto poi di fronte ai vescovi francesi assume anche un certo allure.
Valerio Gironi
Il punto, se ci pensa bene, in fondo è semplice. E’ capire se esista o no una religione che più di un’altra possa aiutare a fortificare i valori di uno stato. Macron, a suo modo, una scelta sembra averla fatta.