Arbitri e democrazia: occhio a delegittimare. Il contrappasso spiegato a Travaglio

Al direttore - Flack.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Nell’impaccio di leccare il suo Fico sulla vicenda della colf, il prof. Travaglio, docente d’italiano come Renato Pozzetto quando spiegava ai suoi studenti il significato della parola “minchia”, mi riprende perché, secondo lui, “contrappasso” si scrive con una sola “p”. E perché, ahimè, non sarebbe un concetto biblico, ma dantesco. Professore, non solo il contrappasso è biblico – e dunque dantesco – ma si scrive con due “p”.

Salvatore Merlo

 

Al direttore - Ho letto vari interventi sul Foglio aventi a oggetto il tema degli arbitri molto critici verso la mia iniziativa di citare in giudizio non genericamente “gli arbitri”, bensì due specifici direttori di gara, arbitro e Var, di uno specifico incontro di calcio, per gli specifici episodi di negligenza professionale di cui si sono resi protagonisti in quell’occasione. L’iniziativa è stata rappresentata in un modo a mio avviso molto distorto, come una manifestazione populista di contestazione del principio di autorità. Addirittura la reazione legale, per definizione civile e non violenta, è stata definita “mostruosa” e accostata impropriamente e offensivamente a situazioni gravi e totalmente differenti con le quali davvero non ha nulla a che fare come gli insulti sul web nei confronti del presidente Napolitano, che mi ripugnano. Al contrario, l’azione legale civile intentata mira ad affermare la responsabilità per negligenza professionale dei due arbitri coinvolti, per avere agito al di sotto degli standard di competenza minimi necessari per svolgere il loro ruolo, per inciso ben remunerato e al centro di un gioco che troppo giocoso non è e che muove non pochi interessi. Autorità, competenza, responsabilità sono princìpi sacri ma che devono sostenersi vicendevolmente: affermare il principio di responsabilità e competenza è quanto di più utile per difendere l’autorità di chi esercita un potere. Qualsiasi potere deve infatti essere esercitato in modo competente all’interno e nel rispetto di un quadro di regole definito, altrimenti sconfina nell’arbitrio e diviene oggetto di giusta censura: nessuno accetterebbe – almeno spero – che un arbitro iniziasse la partita assegnando un calcio di rigore anziché mettendo la palla al centro del campo. Paradosso per dire che esiste un limite all’azione dell’arbitro e la ricerca di tale limite è esattamente l’oggetto dell’esame devoluto agli organi di giustizia. Si tratta cioè di identificare il limite tra discrezionalità ed arbitrio, in altre parole di definire il perimetro della responsabilità in termini di colpa grave, non di dolo, distinguendo tra errori scusabili ed errori inescusabili. Compito questo che, ovviamente, spetta ai tribunali. Tale compito nelle aule di giustizia viene assolto da decenni per definire i perimetri della responsabilità professionale di medici, giornalisti, avvocati, notai, stabilendo in concreto quando non sia stato rispettato il livello minimo di competenza richiesto. Ma chiamare un medico o un altro professionista a rispondere dei danni causati dalla loro negligenza professionale non è mai stato considerato una contestazione del principio di autorità: se un medico sbaglia ripetutamente facili diagnosi e il paziente muore, ciò che mina l’autorità dei medici è la sua incapacità e chiamare il professionista negligente a rispondere dei danni e nei casi più gravi aiutarlo a cambiare mestiere aiuta a difendere la reputazione dei medici bravi. No, affermare la responsabilità di un professionista per colpa professionale non implica in alcun modo che se ne contesti l’autorità ma, al contrario, aiuta ad accrescerla, consentendo di sanzionare a livello individuale i comportamenti inaccettabili, senza colpire collettivamente la categoria e senza minarne la credibilità. Non solo: chi sa di poter essere chiamato a rispondere dei propri gravi errori, alza sempre il livello di attenzione e quindi la qualità delle proprie prestazioni. E magari si assicura contro i rischi del mestiere, come ad esempio fanno per legge tutti gli avvocati, me compreso. Non si comprende per quale motivo applicare queste regole assai elementari dello stato di diritto debba essere ritenuto “mostruoso”, come ho letto di recente sul Foglio. Tutti siamo chiamati a rispondere delle nostre azioni, anche al di fuori delle ipotesi qualificate di responsabilità professionale, come ad esempio nel caso degli illeciti stradali. Perché ciò non dovrebbe valere per gli arbitri? Questo giornale ha spesso censurato indagini e sentenze della magistratura, evidenziandone la pretesa natura politica o asserite lacune e contraddittorietà: ha forse con ciò aggredito il principio di autorità della magistratura? O non sono stati semmai eventuali comportamenti sbagliati a ledere questo principio? E’ il comportamento sbagliato che delegittima l’istituzione o la sua critica? La risposta è ovvia: ciò che è davvero mostruoso è pretendere che esistano categorie di intoccabili, sacche di impunità sottratte al normale controllo di legalità nel loro operato professionale.

Stefano Previti

 

Gli avvocati fanno il loro mestiere, e lei lo fa bene, ma resto convinto della nostra tesi: il principio secondo cui i veri giudici del mondo debbano essere non coloro che vengono scelti per arbitrare ma coloro che osservano chi sta arbitrando è un principio pericoloso. Più che una forma di fare giustizia mi sembra una forma di farsi giustizia. Buon lavoro.

Di più su questi argomenti: