Se le favole entrano nella realtà e la trasformano in una foresta, per un bambino lasciato solo
“Adesso mettetevi accanto al fuoco, bambini, e riposate, noi andiamo a spaccar legna nel bosco. Quando abbiamo finito, torniamo a prendervi”. Hansel e Gretel rimasero accanto al fuoco e a mezzogiorno mangiarono loro pezzetto di pane. E udendo colpi d’accetta credevano che il babbo fosse vicino. Ma non era l’accetta, era un ramo, che egli aveva legato a un albero secco e che il vento sbatteva di qua e di là. Eran là, seduti da un pezzo, e alla fine i loro occhi chiusero per la stanchezza ed essi si addormentarono profondamente. Quando si svegliarono, era già notte fonda. Gretel si mise a piangere e disse: “Come faremo ad uscire dal bosco!”.
“Hansel e Gretel”, fratelli Grimm (Rizzoli)
Questa favola mi angosciava moltissimo, da bambina: non riuscivo a capire il padre di Hansel e Gretel. Ma come, mi agitavo, è tanto buono e abbandona i suoi figli per far contenta la matrigna? Li abbandona per due volte? Se un uomo è buono, dicevo, non può fare una cosa cattiva nemmeno se ha sposato una donna cattiva. E poi non lo capisce che quella è cattiva? Che cos’ha, è scemo? Un padre non abbandona nel bosco i suoi figli, se non è un orco. Ma è una favola!, mi rispondeva mia madre, c’è anche la casetta di marzapane, la vecchia strega, le finestre di zucchero, sono cose che non esistono nella realtà. Era l’unica frase che mi rassicurava: non esiste nella realtà. Ho imparato, poi, che molte cose invece esistono nella realtà, cose terribili e spaventose, e che i bambini vengono gettati in mare dai barconi e altri viaggiano soli, a pochi mesi, perché la mamma è annegata. Il bellissimo libro di Woldek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli), viaggio nella memoria e nel futuro, attraverso Auschwitz, Cracovia, Varsavia, Treblinka, si apre con la storia di zia Chaitele, ebrea polacca, che durante la guerra si era nascosta in una foresta. “Era inverno. Chaitele, assieme ai suoi compagni, ebrei, dovette fuggire in fretta dal nascondiglio. Aveva un bambino piccolissimo. Lo abbandonò nella neve. Lei si salvò”. Quando le cose della realtà sono abitate dall’inumano, ci sovrastano e non lasciano nessuna fessura alla speranza.
Ma nella realtà ci sono anche le favole, e i bambini coraggiosi come Hansel e Gretel, capaci di spingere la strega dentro il forno e tornare a casa dal babbo. La settimana del bambino giapponese abbandonato nella foresta di bambù per punizione dai genitori assomiglia a una di queste favole, incomprensibili ma a lieto fine, in cui il padre piange disperato in pubblico e chiede scusa al mondo intero “per essere andato oltre”. Per avere realizzato l’incubo di ogni bambino: da solo nel bosco di notte, in una foresta popolata da orsi. E non per essersi perduto mentre giocava, non per avere disubbidito alla mamma come Cappuccetto Rosso, ma perché i suoi genitori erano arrabbiati con lui. Tirava sassi, faceva dispetti. A sette anni Yamato ha superato la prova dell’abbandono, della solitudine, della fame e della sete, come un bambino delle favole, come Pollicino con i sassolini in tasca. Ha camminato per sette chilometri, ha trovato un riparo, ha trovato dell’acqua, ha aspettato una fata o qualcuno di buono che arrivasse a salvarlo. Si sarà raccontato delle favole da solo, la notte, sotto il materasso della baracca militare? Avrà pensato che i suoi genitori erano ancora arrabbiati, oppure felici finalmente senza di lui. Quando in elicottero l’hanno portato in ospedale, dopo sette giorni e sei notti senza mangiare, suo padre gli ha chiesto scusa piangendo. Yamato l’ha guardato, ha annuito e ha detto solo: ok. Ok ti perdono, anche se i padri non abbandonano i figli nei boschi, nemmeno per cinque minuti. Magari lo dicono, insieme a moltissime altre stupidaggini minacciose (arriva il lupo, ti lascio qui, torni da solo, ecco la strega), ma non lo fanno. Perché nelle favole ci sono cose che non devono entrare nella realtà.
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