La necessità del racconto e l'impossibilità di una riparazione. Il senso di essere nel mondo
Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. Nella capacità di rivolta e nel discernimento sta l’essenza del nostro essere nel mondo.
Wlodek Goldkorn, “Il bambino nella neve” (Feltrinelli)
Eppure, malgrado tutti gli sforzi per non sentirsi vittime e per trasformare la memoria della Shoah in un modo di pensare al futuro, tirandola fuori da sé, provando a distaccarsene (“indago sul passato non per rendere giustizia ma, al contrario, per affacciarmi senza speranza su una voragine”), le storie famigliari, l’esilio dalla Polonia, le morti, il ricordo di Auschwitz, il cimitero ebraico di Varsavia rendono il passato così vivo da non potere davvero separarlo dalla vita dei giorni, e dal sentimento che si ha per questa vita. Wlodek Golkorn, ebreo polacco che dal 1968 ha lasciato la Polonia, prima per Israele e poi per l’Italia, per molti anni responsabile culturale dell’Espresso, amico di Marek Edelman (l’unico comandante sopravvissuto della rivolta del ghetto di Varsavia: pregava sempre Wlodek di non trasformarlo, scrivendo, in un eroe) ha scritto un libro molto bello sulla famiglia, sull’essere polacchi, sulla memoria, sui sentimenti, sul Male e su quello che succede a un uomo quando incontra se stesso e i suoi morti, e viaggia indietro nel tempo e torna nei posti che aveva lasciato cinquant’anni fa, e visita i campi di sterminio, “il cimitero della mia famiglia”. “Esiste una bella parola ebraica, ‘Tikkun’, significa la riparazione del mondo. Ecco, io penso che dopo la Shoah non è possibile il Tikkun: il mondo rimane e rimarrà senza riparazione”.
Questo è il punto di partenza, e di distacco, per un saggio narrativo che contiene molte vite e tutto il senso cercato, analizzato, impossibile da trovare, necessario da esprimere per andare avanti, dell’orrore visto da vicino, che non ha mai smesso di tornare, dopo la Shoah, nonostante la Shoah (il pogrom di Kielce è del luglio 1946: ebrei superstiti dei lagher e dei ghetti che vengono lapidati nelle case, buttati dalle finestre, fatti scendere dai treni e ammazzati perché si era sparsa la voce che “gli ebrei hanno sequestrato un bambino e l’hanno ammazzato per usare il suo sangue nelle azzime”, e quel bambino cinquant’anni dopo è stato intervistato da due documentaristi polacchi e ha pianto: “Mi sento colpevole anche se so di non esserlo”). Wlodek Golkorn racconta di un amico ebreo, Bernard, un ragazzo irrequieto figlio di un militante comunista morto di stenti in Russia: Bernard in Polonia indossava il basco che aveva visto sul giornale nelle foto di Sartre e a metà degli anni Sessanta partì dalla Polonia, dal palazzo di Katowice, per Parigi, con un passaporto turistico, e decise di non tornare mai più. Wlodek andò a trovarlo negli anni Settanta, voleva sentire le storie del Maggio francese, ma Bernard non voleva parlarne e a casa sua erano spariti i libri. “E i libri? Dove sono i libri?”. “Li ho buttati via. Mi hanno fatto male, troppo male”.
Bernard aveva scelto il vuoto, perché le parole erano troppe e non riuscivano a raccontare l’essenziale, non riuscivano a dire la verità, l’enormità, la stupidità di quell’orrore. Le parole l’avevano deluso. Le persone sono state inghiottite anche dal vuoto, dopo, oppure, come zia Chaitele che per salvarsi aveva abbandonato il suo bambino, neonato, nella neve, ogni notte gridano e piangono. “Una volta, anziché tapparmi le orecchie, mi sono alzato. Sono andato in cucina. Chaitele era seduta al tavolo, la testa tra le mani. Piangeva. Era calva”. La mattina dopo, appena Wlodek ragazzino si svegliò, gli disse: “Non devi raccontare a tuo padre quello che hai visto. Non voglio che soffra a causa mia, gli bastano i suoi morti”. Che cosa rimane, oggi? L’impossibilità di una riparazione, la necessità assoluta del racconto.
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