La gioia opprimente di una figlia e l'infinita solitudine di sua madre nelle regole della buona società
Va tutto benissimo, cara mamma!, le aveva detto Leila; e sua madre era rimasta sola, cercando di adattarsi al nuovo stato di cose definito da quella certezza.
Edith Wharton, “Autres Temps”, 1911
C’era qualcosa di opprimente nella felicità della figlia Leila, appena divorziata e subito risposata dentro un rapporto solido e rassicurante quanto il mobilio della villa, e rispettabile quanto il loro conto in banca. La madre, dentro la completezza del benessere di Leila, non trovava più un posto. E allo stesso tempo si chiedeva: perché, se un cambiamento doveva esserci, non è avvenuto prima? Perché una donna divorziata adesso non ha colpa alcuna, nessun tumulto, nessuno scandalo, e io invece ho pagato il mio divorzio con i migliori anni della mia vita e un esilio perpetuo, e uno spreco insensato di felicità, perché il mio esperimento è stato così disastroso e ha portato soltanto dolore e imbarazzo? Edith Wharton, nata nella seconda metà dell’Ottocento in una delle più ricche famiglie di New York, è stata la prima donna a vincere il premio Pulitzer con “L’età dell’innocenza”, pubblicato nel 1920, quando era già divorziata e da anni si era trasferita in Francia.
Aveva abbandonato New York, abbandonando il marito, ma raccontò per sempre le regole feroci e le relazioni di quella rigida alta società americana (sta per uscire per Elliot la sua autobiografia, “Uno sguardo indietro”, scritta nel 1935, due anni prima di morire) e in questo racconto magnifico, “Autres temps”, Edith Wharton descrive il tormento e il destino di una donna che ha violato le regole con troppo anticipo sui tempi, e che ora osserva la figlia comportarsi allo stesso modo ma con naturalezza, senza scosse, senza conseguenze dolorose, mentre lei non può nemmeno adesso sfuggire al passato. “Il tempo andato la guardava dal volto di ogni conoscente, compariva all’improvviso negli occhi degli estranei quando bastava una parola per chiarire tutto. – Sì, quella signora Lidcote, non lo sapete?” – e i vecchi amici continuavano a non salutarla, oppure le facevano visita di nascosto, e questo suo passato di donna che aveva divorziato sarebbe stato sempre più grande e pesante di qualunque cosa avrebbe mai potuto riservarle il futuro. Diciotto anni prima la madre di Leila era stata esclusa dalla buona società, diciotto anni dopo Leila correva lo stesso rischio: l’esilio perpetuo. Così, sulla nave che dall’Italia la portava a New York, dopo tanto tempo, la signora Lidcote si era immaginata di soccorrere una figlia disperata in quell’ironico destino che le metteva una accanto all’altra, e oltre alla preoccupazione provava una immensa gioia: “Era una tale meravigliosa novità sentire ancora che c’era una persona che non avrebbe potuto andare avanti senza di me!”.
Non è così. La figlia è felice, felicissima, circondata dall’amore e dagli amici, e la società la accarezza e la accoglie, con la stessa feroce naturalezza con cui, dopo vent’anni, esclude ancora sua madre. Nessuno si ricorda perché, ma tutti si vergognano di lei. Si era illusa che la libertà di Leila servisse a discolpare la sua libertà. Invece perfino Leila si vergogna, con affetto, di sua madre, e fa in modo che a New York non esca dalla sua stanza e non incontri nessuno, per non creare scandalo e disapprovazione. E’ un racconto spietato, spaventoso, bellissimo. “La società è sempre troppo occupata per rivedere i propri giudizi. Probabilmente nessuno in quella casa si è soffermato a considerare che il mio caso e quello di Leila erano identici. Il mio caso era stato condannato e giudicato; e io sono solo la donna che è stata ignorata per quasi vent’anni”. Ignorare la signora Lidcote era diventata una consuetudine sociale, impossibile da abbattere. Perfino la figlia, mentre faceva le stesse scelte della madre, aveva scelto di ignorarla. Alla signora Lindcote non restava che ripartire, e tornare a Roma, più sola che mai.
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