Storia di Mirta e di suo figlio Ilie. L'infelicità è sempre più vicina, fra la Moldavia e l'Italia

Annalena Benini
Non esistono le parole giuste per dire a un figlio di dodici anni: ti lascio qui, starai solo, starai male, avrai freddo, io non ti porterò il tè caldo la mattina, non ci sarò mai quando farai i compiti e quando sarai triste e quando i vestiti ti diventeranno piccoli.

    Padre, ho bisogno di parlare con mamma. Le può chiedere perché Ilie non mi risponde? Provo anche sul cellulare ma ce l’ha sempre staccato. Ha già finito i soldi che gli avevo caricato? Quando lo vede per favore gli dica di scrivermi. Poi dovrebbe dire a mamma che fra tre giorni mando la roba con Pavel. Arriverà al paese il 25. Le dica di controllare sempre bene dentro le tasche laterali, mi raccomando. I soldi li metto lì. Mi avverta se c’è bisogno di qualcosa. Sua, Mirta Mitea
    Antonio Manzini, “Orfani bianchi” (chiarelettere)

     


     

    Mirta è in Italia a lavorare come badante e scrive quasi ogni giorno email a suo figlio Ilie, 12 anni, che non le risponde mai. Scrive anche al parroco della chiesa del paese moldavo in cui ha lasciato suo figlio con la nonna, sua madre, che non sa usare la mail e però le manda a dire di tornare a casa, ché lei è stanca e con il bambino non ce la fa più: è diventato un bambino triste. Mirta ha trentaquattro anni e lavora e scrive, manda soldi a casa, si preoccupa, resta attaccata tutto il giorno al suo cellulare, aspetta una parola da suo figlio, cerca di spiegargli che non sarà per sempre, e intanto prova a pensare al futuro, a ridere ancora. Non è un romanzo sulla salvezza, questo. Non c’è la consolazione di un dolce domani, c’è invece il ritratto durissimo di famiglie infelici. Le famiglie italiane dove Mirta fa da badante alle signore anziane solissime, e le famiglie moldave dove le madri partono e lasciano i bambini con chi possono, devastate dal dolore ma non ancora disperate, convinte che sia la cosa giusta, la grande opportunità: qualche anno e tutto si sistemerà. “‘Durerà poco…’ aveva detto Mirta in ginocchio davanti al figlio per riuscire a guardarlo negli occhi. Ma Ilie era rimasto zitto. ‘Poi ti porto in Italia, fosse l’ultima cosa che faccio nella vita. Tu promettimi che cominci a studiare l’italiano però’”.

     

    Non esistono le parole giuste per dire a un figlio di dodici anni: ti lascio qui, starai solo, starai male, avrai freddo, io non ti porterò il tè caldo la mattina, non ci sarò mai quando farai i compiti e quando sarai triste e quando i vestiti ti diventeranno piccoli e avrai bisogno delle scarpe nuove, ma un giorno finirà. Una separazione può comprenderla un adulto, che ha anni dietro le spalle, che ha un’idea di futuro e di necessità, ma ai bambini volano via i sorrisi dagli occhi. In questo libro c’è la storia di un bambino senza più sorrisi, che gioca con il Nintendo che gli ha comprato la madre in Italia, a Roma, e tiene il cellulare spento perché non ha niente da dire, non aspetta più buone notizie. Ed è la storia di una donna giovane, come quelle che entrano nelle nostre case e se ne prendono cura e vanno dai nostri figli a scuola, costretta al folle sacrificio di allontanarsi da un figlio per dargli una vita.

     

    Tenere in braccio i figli degli altri mentre suo figlio non ha nessuno, a volte, che gli faccia una carezza, che gli racconti una storiella divertente. E’ il racconto di uno strazio quotidiano, ma anche di una speranza incrollabile, di un’allenamento alla durezza: la capacità di una donna di sopportare ogni umiliazione, ogni sconforto, ogni delusione in nome di un’idea luminosa di futuro. “Che razza di madre sei?”, si chiede Mirta la notte mentre non dorme, mentre pensa a come non lasciare suo figlio. “Era una madre sola, e il mondo era un masso, un enorme masso che rotolava per una discesa e lei poteva solo scappare e cercare un posto dove nascondersi. Perché quello acquistava velocità, giorno per giorno, e se non fosse riuscita a evitarlo, a farlo rotolare via, l’avrebbe schiacciata sotto il suo peso”. E quindi, nonostante tutto, nonostante gli occhi già lontani di un figlio triste, bisogna partire, correre, non voltarsi indietro. Ma il masso continua a rotolare, indifferente.

     

    (foto furtwangl via Flickr)

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.