Anais Ginori racconta il massacro di Charlie Hebdo e quel gesto cruciale nei giornali di carta
“Negli ultimi anni ci siamo sentiti un po’ soli nel tentare di respingere a colpi di matita porcate e raffinatezze pseudo intellettuali che ci buttavano in faccia: islamofobi, cristianofobi, provocatori, irresponsabili, agitatori, razzisti, ve-la-siete-cercata.”
“Charlie Hebdo”, gennaio 2015
La mattina del 7 gennaio 2015 Wolinski, il disegnatore, si trova davanti all’edicola di Saint-Germain-des-Prés per comprare i giornali di carta. “Come va Patrick?”, chiede Wolinski all’edicolante, come ogni volta. “Tutto male, monsieur Wolinski, purché duri”, risponde il giornalaio, come ogni volta. Wolinski non si ferma a bere il caffè al Flore, ha già fatto colazione a casa, in cucina con sua moglie, le ha detto: “Chérie, vado da Charlie”. Adesso si infila in metropolitana, direzione Bastille, per la prima riunione di redazione dopo le vacanze di Natale. Ha i giornali sotto braccio. Pochi minuti dopo passa all’edicola Cabu, anche lui disegnatore satirico di Charlie, uno della vecchia guardia. Compra soltanto una copia del Monde di solito, ma oggi anche il Canard, sul quale figura sempre una sua vignetta. Si ferma a bere un caffè al Flore, con la sacca nera a tracolla, paga il conto e va anche lui in redazione, da Charlie.
Sappiamo che cosa è successo dopo. Dodici persone inermi sono state ammazzate dai fratelli Kouachi che hanno urlato “Allahu Akbar” e hanno crivellato di colpi anche Elsa Cayat, la psicanalista che aveva una rubrica, “Charlie Divan”, e nel numero in edicola aveva scritto un articolo sulla “capacità di amare”. Anais Ginori, corrispondente da Parigi per Repubblica, si è trovata a venti metri dalla redazione di Charlie pochi minuti dopo la strage, ha visto il sangue, i soccorritori, ha sentito la moglie del direttore di Charlie gridare: “Lo voglio vedere, fatemi salire” e poi buttarsi a terra. In questo libro uscito prima in Francia e adesso in Italia per Bompiani, “L’edicolante di Charlie”, Anais Ginori ha raccontato e rimontato tutto attraverso il filo di Patrick, l’edicolante di Wolinski e del cuore di Parigi: lui tornava a casa quella mattina, usciva dal centro di Parigi sulla sua vecchia Clio, con il cane sul sedile posteriore, e i terroristi che avevano appena assassinato Wolinski e gli altri l’hanno fermato, fatto scendere, hanno preso la sua auto per scappare. Avevano i kalashnikov, gli hanno lasciato prendere il cane.
Anais Ginori non ha aggiunto aggettivi, giudizi o indignazione a questo pezzo di storia nostra, che sconvolge ancora di più chi passa la vita dentro le redazioni dei giornali, tra i fogli e i computer e i post-it con i numeri di telefono e la macchina del caffè, le sedie, la polvere dei libri, e dài usciamo a fumare una sigaretta. “Dietro ai suoi grandi occhiali quadrati, Luz vede da lontano la macchina dei terroristi che riparte. Segue la scia di sangue, entra in redazione. Un massacro. Nella sala riunioni tutti i suoi amici – Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Honoré – sono faccia a terra, nel sangue. Vede solo le loro schiene, i loro sederi. ‘Libertà di espressione? Il mio culo!’. Sarà uno dei primi disegni della sua catarsi”. Non serve l’enfasi, e certo non serve la polemica, davanti a una storia così: “Al cinema, non ci avrebbe creduto nessuno”, ha scritto Anais Ginori. Al cinema, forse Wolinski sarebbe tornato da sua moglie, l’avrebbe riabbracciata. Invece in questo racconto teso, semplice e terribile non c’è nessuna salvezza. O meglio, ci si salva per caso, chiusi dentro un armadio o fuori città per un funerale, e si porta addosso per sempre il senso di colpa di essersi salvati. C’è ancora qualcosa di bello, però, ed è un movimento preciso, che ha senso solo sulla carta e quindi nelle edicole, non solo a St Germain-des-Prés: “Quel gesto cruciale in cui si abbandona un testo al suo destino, ben sapendo che domani sarò tutto da rifare”.
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