Bastonare un uomo che muore. Il racconto della disumanità nella nuova strage dei migranti

Annalena Benini
Davanti alle coste della Libia, con il mare in burrasca, sono morte duecentoquarantanove persone. Ventinove sopravvissuti sono arrivati a Lampedusa e hanno raccontato a Pietro Bartolo, il medico dell’isola, che un uomo è stato ucciso perché aveva paura.

    “Gli scafisti hanno sparato e hanno ucciso un uomo per costringere gli altri, che avevano paura, a salire sul gommone”
    Pietro Bartolo, medico di Lampedusa

     


    Davanti alle coste della Libia, con il mare in burrasca, sono morte duecentoquarantanove persone. Ventinove sopravvissuti sono arrivati a Lampedusa e hanno raccontato a Pietro Bartolo, il medico dell’isola, che un uomo è stato ucciso perché aveva paura, ma gli scafisti sparavano nel mucchio. Il dottor Bartolo, figlio di pescatori, è da quasi trent’anni il medico di Lampedusa, cura gli isolani e assiste ogni sbarco.

     

    Ha rischiato di annegare da ragazzino, di notte, durante una battuta di pesca in cui è caduto dalla lancia, non si è più dimenticato che cos’è l’acqua che entra in bocca e nelle ossa. Ha visto centinaia di corpi e centinaia di vite allo stremo. Ha visto i cadaveri dei migranti a cui gli scafisti hanno spaccato le ossa della faccia e delle mani a bastonate, per impedirgli di uscire dalla stiva. E le ustioni che i ragazzini hanno su tutto il corpo, perché il carburante che esce dalle taniche durante le traversate entra nei vestiti e sulla pelle. Ha visto e ricomposto donne che avevano partorito mentre morivano. Questo dottore adesso lo conoscono tutti, perché è uno dei protagonisti di “Fuocoammare”, il film documentario di Gianfranco Rosi, e insieme alla giornalista Lidia Tillotta ha anche raccontato la sua vita di medico di Lampedusa (“Lacrime di sale”, strade blu Mondadori): è stato a Berlino, dove “Fuocoammare” ha vinto l’Orso d’oro, è stato dal Papa, è stato in molti posti e ovunque l’hanno ringraziato e celebrato. E’ diventato una persona importante. Ma Pietro Bartolo di notte piange nel sonno e suda freddo, di giorno sta al molo Favarolo ad assistere gli sbarchi e vede gli occhi vuoti, le ferite, l’annientamento.

     

    Una sera, ha raccontato,  arrivò al molo una barca senza morti, Bartolo visitò tutti, li fece scendere a uno a uno. Molti piangevano e si disperavano, altri lasciavano scendere le lacrime senza dire niente. Era quasi notte e la barca era vuota, Bartolo aprì la botola che portava nella ghiacciaia e si infilò dentro. Sentì qualcosa di morbido e irregolare sotto i piedi, come camminare sui cuscini. Era troppo buio e accese la torcia del telefonino. Erano corpi. Giovanissimi corpi nudi distesi, e le pareti della stiva erano graffiate e grondavano sangue. Questa è la storia della disumanità senza limiti. I sopravvissuti, interrogati, fratelli, sorelle, amici dei ragazzi che erano morti nella ghiacciaia, dissero alla polizia che la barca era troppo piena, e cinquanta di loro, i più magri, erano stati costretti a scendere nella stiva da quella botola stretta. Con la promessa di uscire appena fuori dalla costa. Venticinque erano riusciti a uscire prima. Ma la barca non era stabile e agli altri venticinque era stato impedito di salire. Non respiravano e gridavano e provavano a salire ma gli scafisti li picchiavano con i bastoni e li ricacciavano giù. Nonostante le bastonate, le mani fratturate, loro continuavano a spingere tutti insieme. Allora gli scafisti hanno scardinato la porta della cabina, l’hanno fissata sopra il boccaporto e si sono seduti lì sopra. Hanno tolto tutta l’aria, tutta la vita. 

     

    Le pareti della ghiacciaia erano piene di sangue perché i ragazzi avevano provato a scardinare a mani nude le assi della stiva, avevano cercato di scavare nel legno, si erano tolti i vestiti perché mancava l’aria, ma urlavano e battevano le mani insanguinate, e chi stava sopra doveva fare finta di non sentire, restare immobile, con un fratello che moriva soffocato là sotto. Un quarto d’ora, prima di non sentire più niente. Un quarto d’ora per finire tutta l’aria. Venticinque bocche, cinquanta mani insanguinate. Molti di loro sono morti abbracciati. Molti muoiono abbracciati. Altri vengono ripescati dal mare con una catenina con il crocifisso serrata fra i denti.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.