“Le otto montagne” di Paolo Cognetti, il sentiero per diventare adulti e comprendere il dolore
Quanto tempo ci serve per diventare chi siamo.
Mio padre morì quando lui aveva sessantadue anni, e io trentuno. Solo durante il funerale mi accorsi di avere l’età che aveva lui quand’ero nato io. Ma i miei trentun anni assomigliavano ben poco ai suoi: io non mi ero sposato, non ero entrato in fabbrica, non avevo fatto un figlio, e la mia vita mi sembrava per metà quella di un uomo, per metà quella di un ragazzo.
Paolo Cognetti, “Le otto montagne”, (Einaudi)
Quanto tempo ci serve per diventare chi siamo, e a volte non succede e allora apriamo la finestra di notte e insultiamo la città, vorremmo dirle di tacere, come faceva il padre di Pietro, il protagonista di questo romanzo. Insultava Milano perché a Milano non ci sono le montagne, perché lui era felice soltanto lassù, e anche perché ci sono persone che non riescono a essere felici.
Paolo Cognetti ha individuato, attraverso questa storia di amicizia maschile e di montagna, di identità a lungo cercata nella solitudine, il filo di un’infelicità che accompagna la vita di adulti e bambini, che la abbandona solo per pochissimo, ma poi torna a farsi sentire, a chiedere di salire più in alto, di allontanarsi dalle persone, anche, e dice che la vita prende forma in modi molto diversi, e non basta un’esistenza per arrivare a comprendersi. A Pietro e a suo padre non è bastata, si sono delusi a vicenda e non si sono parlati per anni, sono stati lontani e il padre è rimasto piantato dentro la sua infelicità, ma con una speranza, e la consolazione della compagnia di un amico del figlio, Bruno, che lo accompagnava nelle salite in montagna, e lo accompagnava a cercare il posto adatto per costruire una casa, sempre lassù. Adesso che la vita adulta sta arrivando, anche se Pietro è metà uomo e metà ragazzo, questo figlio ha la possibilità di riconciliarsi con il padre, attraverso la montagna e i rimpianti che li avevano divisi.
Ha la possibilità di capire che accanto al padre irascibile e tetro che lui aveva creduto di conoscere ce ne era un altro, e lui l’aveva avuto sempre lì senza mai accorgersene. Un padre con un passato doloroso, in cerca di espiazione e di continuazione. Questa non è soltanto una storia di amicizia e di crescita di due bambini, poi ragazzi e uomini, è anche la riscoperta di un padre attraverso i sentieri di montagna, e soprattutto attraverso gli occhi di chi per un po’ aveva occupato quel posto vuoto di figlio, salendo insieme a lui sul ghiacciaio, e finendo così sulla mappa dei sentieri tracciati appesa al muro della casa di montagna, ognuno con un colore diverso. “Il nero naturalmente era lui. Il rosso lo accompagnava in vetta ai nostri Quattromila, perciò non potevo che essere io. E il verde, per esclusione, era Bruno.
Mia madre me l’aveva detto, che andavano a camminare insieme. Vidi che ce n’erano tanti, di sentieri neri e verdi, forse anche più dei sentieri neri e rossi, e ne fui un po’ geloso. Un po’ fui anche contento di sapere che per tutti quegli anni mio padre non era andato in montagna da solo. Mi venne in mente che in qualche modo tortuoso, quella mappa appesa al muro potesse essere un messaggio per me”. Per seguire suo padre, senza diventare come lui, che era salito sulla montagna senza mai più scendere, pur restando a Milano a insultare la città dalla finestra, senza il conforto di un amico. Pietro invece ha Bruno, e Bruno ha Pietro. Quello che non riescono a trovare nel mondo e nelle persone lo trovano camminando insieme in silenzio, o parlando di laghi e di stambecchi e di mucche, e costruendo la casa in cui rifugiarsi. Tutti fuggono da un dolore, oppure gli corrono incontro, lo aspettano, provano a comprenderlo o, come la madre di Pietro, lei sì davvero adulta, lo accettano.