Il tempo è uno stato interiore, non solo per i ragazzini
L’importanza di fare la differenza
Guardate un bambino che gioca: vive in un presente eterno. Guardate invece un adolescente che si annoia: il suo presente è una condanna all’ergastolo. Il bambino è convinto che durerà così per sempre e l’adolescente pensa che non finirà mai. Considerano il tempo a grandi linee. Per loro la durata è uno stato interiore. Proprio in quegli anni, spesso, accade che incontrino un adulto che si rivelerà decisivo.
Daniel Pennac, “Una lezione d’ignoranza”
Il tempo è uno stato interiore anche per gli adulti, a volte: quando siamo a una recita scolastica, certi che non finirà mai, o a un saggio di ginnastica ritmica, e ballano tutte le bambine del mondo prima delle nostre, passano le ore e ormai ci conosciamo tutti, fra genitori, abbiamo individuato gli amici e i nemici, sappiamo a chi chiedere un po’ d’acqua, una coperta. E il tempo è uno stato interiore anche quando siamo al telefono per comprare un biglietto del treno, e ogni volta c’è un intoppo, la linea è occupata, oppure cade, o l’operatore promette di richiamare e non lo fa mai, e se richiama ha solo brutte notizie: il sistema è inceppato, sul treno non c’è posto, il cane non può viaggiare, la sua carta di credito è scaduta, lei signora in realtà non è mai esistita, ma grazie per averci chiamato. Ci sono momenti, anche nella vita degli adulti, in cui si galleggia in uno stato di contrattempi e contrarietà e tutto sembra identico, nel malumore e nella rassegnazione: non finirà mai. Anche qui, come nell’infanzia e nell’adolescenza, sono decisivi gli incontri.
Daniel Pennac nella lectio magristralis all’Università di Bologna di qualche anno fa raccontava gli incontri con gli educatori, i mentori o i professori che ci hanno cambiato la vita. “Riconosciamo che senza di loro non saremmo ciò che siamo. E ci diciamo che non li dimenticheremo mai. In realtà, non li abbiamo mai dimenticati. Ne abbiamo nitida in mente la voce, lo sguardo, i gesti, l’abbigliamento, le manie, l’esatto volume che il loro corpo occupava in classe”. Ognuno di noi, con un po’ di fortuna, ha avuto qualche professore, qualche adulto così da ricordare. Alle scuole elementari, alle medie, al liceo, fino all’università e oltre, quando si diventa più impermeabili all’influenza degli altri ma c’è molto bisogno, invece, di qualcuno che ci indichi un nuovo mondo, un pensiero diverso, perfino un altro modo di vivere l’amore. Siamo fatti degli incontri attraverso cui diventiamo chi siamo, siamo fatti delle professoressa delle medie vestita di tweed che ci costringeva a riscrivere i temi a macchina per migliorarli, e siamo fatti dell’insegnante che si illuminava per Catullo e poi per Leopardi, e che leggeva i versi in classe e si commuoveva anche per Prometeo incatenato, e allora il tempo aveva di nuovo un senso e un corpo. Degli altri professori abbiamo un ricordo vago, di loro ricordiamo anche la spilla sulla giacca e l’ombretto sulle palpebre. Perché sono stati davvero qualcuno.
Così adesso che abbiamo davanti un mare di ragazzini, e alle cene e ai pranzi di Natale ci sono i cugini che non vediamo mai, i nipoti che arrivano da lontano, l’adolescente immersa nel suo smartphone e anche i nuovi figli di ex mariti, ex mogli, e gli amici che si sono portati per sopravvivere al Natale in famiglia, chissà se saremo capaci di essere anche noi qualcuno per loro, magari per cinque minuti. Di accendere una luce, di catturare il loro sguardo. Dire una cosa che gli girerà in testa per un po’, o portarli al cinema almeno, o insegnargli a guidare. Fare la differenza insomma. Sarebbe un trionfo. Lo sarebbe anche incontrare un operatore che dica: la transazione è andata a buon fine, le auguro buon viaggio e buone feste. Cara operatrice del call center, che hai risolto tutto in un minuto dicendo anche: ma s’immagini, hai trasformato l’eternità dei contrattempi in una vigilia di Natale, grazie.