Tutti i racconti di Virginia Woolf
Per lei la vita è solo “quello che si legge negli occhi della gente”
Dove siamo? Quale sarà la casa della festa? Queste con le loro finestre rosa e gialle sono così indifferenti. Ah – dietro l’angolo, nel mezzo, là dove la porta è spalancata – no, aspetta. Restiamo qui a guardare gli invitati, uno, due, tre, tuffarsi nella luce, come le falene che sbattono contro il vetro della lanterna appoggiata a terra nel bosco. Ecco un tassì diretto a gran velocità in quello stesso punto. Ne discende una signora pallida e voluminosa ed entra dentro; un signore in abito da sera bianco e nero paga il conducente e la segue come se fosse anche lui di fretta. Andiamo, o faremo tardi.
Virginia Woolf, “Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose” (Racconti edizioni)
Nel 1986 la casa editrice “La tartaruga”, che pubblicava Margaret Atwood, Alice Munro, Nadine Gordimer, Doris Lessing, Dorothy Parker, Grace Paley, aveva tradotto tutti i racconti di Virginia Woolf, ma quel libro è ormai introvabile, così adesso è entusiasmante ritrovarli in ordine cronologico, a cura di Liliana Rampello, in un volume che mostra intera l’evoluzione di una scrittrice che nel 1906, a ventiquattro anni, cercava la vita negli occhi e nella vita quotidiana delle ragazze qualunque, che vivono nel loro salotto in attesa di una proposta di matrimonio accettabile, che escono a comprare i fiori perché a pranzo ci sono ospiti, e trascorrono la giornata in giri di visite, e non hanno mai avuto in mente una stanza per sé o un’altra vita. Virginia Woolf, che da bambina aveva fatto un patto con la sorella Vanessa: tu sarai una pittrice e io una scrittrice, e nessuna delle due venne meno a quel patto, era invece incantata dal pensiero della vita delle donne (“prima di mettere un solo bambino al mondo dobbiamo giurare di andare a vedere com’è fatto il mondo”, fa dire a Clorinda ne “La società”), molto prima di creare Mrs Dalloway e Mrs Ramsay di “Al faro”, vent’anni prima di scrivere “Una stanza tutta per sé”. Le signorine Hibbert, Phyllis e Rosamund, ad esempio, vivono con i genitori e sono beneducate, sono “le tante donne che si affollano nell’ombra”, e incontrano un pomeriggio un gruppo di ragazze diverse da loro, che hanno uno scopo, discussioni, progetti, e non pensano troppo al matrimonio ma ne parlano con libertà e franchezza, e loro due, vestite di piume, si sentono perdute, ma curiose, e guardano e vengono guardate con la stessa ostinata intenzione di scoprire la verità, l’io puro che deve per forza nascondersi nell’ammasso di frivolezze artificiali che ogni gruppo, in fondo, porta con sé. E così una ragazza, Sylvia, un po’ per vanità un po’ per curiosità chiede a Phyllis: “Che cosa fa lei?”. “Che cosa faccio?”, le fece eco Phyllis. “Ordino il pranzo, sistemo i fiori”. “Si, ma che mestiere fa”. “E’ quello il mio mestiere”. Sylvia, a cui ancora manca la comprensione profonda dell’animo umano e anche la pietà, è costernata e grida: “Mio Dio! Ma è un Buco Nero! Io mi darei fuoco, mi sparerei, mi butterei dalla finestra; qualsiasi cosa”. Ma Phillys le dà una risposta molto seria: “Se lei fosse al nostro posto forse farebbe qualcosa; ma non credo si potrebbe trovare al mio posto, questa è la nostra vita e noi non abbiamo altra scelta che accettarla. Vorrei solo farle capire perché veniamo qui e rimaniamo in silenzio. Vede, questa è la vita che ci piacerebbe vivere e ora mi viene il dubbio che non ne saremmo capaci”. Attraverso il bisbigliare delle cose quotidiane, e in una sera trascorsa a ripensare a quelle domande e risposte, a sentire una ventata d’aria gelida che entra nel cuore di Phyllis, che pure per una volta non si è annoiata, Virginia Woolf, ventenne, getta il seme di tutta la sua storia di scrittrice, che nel diario scrive: “Penso per scene, passo dall’una all’altra stanza illuminata, e le passeggiate nei campi sono i corridoi”