La statua di Clarice Lispector a Rio de Janeiro (foto LaPresse)

Clarice Lispector è così vicina al cuore selvaggio che leggerla è come andare in giro nudi

Annalena Benini

Ha cominciato a scrivere a sette anni ed è stata paragonata a Joyce e a Virginia Woolf. È morta a Rio de Janeiro nel 1977 e oggi è considerata una scrittrice importantissima del Novecento

Oggi è sabato ed è fatto dell’aria più pura, soltanto aria. Ti parlo come esercizio profondo, e dipingo come esercizio profondo di me. Adesso cosa voglio scrivere? Voglio qualcosa di tranquillo e senza fronzoli. Qualcosa come il ricordo di un monumento alto che sembra ancora più alto perché è un ricordo. Ma voglio fra l’altro aver davvero toccato il monumento. Mi fermo perché è sabato.
Sempre sabato. Ciò che sarà ancora dopo…è adesso. Adesso è il dominio di adesso. E fintanto che dura l’improvvisazione io nasco.
Clarice Lispector, “Acqua viva” (Adelphi)


 

Clarice Lispector è nata in Ucraina nel 1920, a Tchetchelnik, ma aveva pochi mesi quando arrivò in Brasile con i genitori, e la sua lingua è stata sempre il portoghese. Ha cominciato a scrivere a sette anni, ha perso sua madre a nove, ha scritto “Vicino al cuore selvaggio” (pubblicato in Italia da Adelphi nel 1987) quando aveva solo diciannove anni, ed è stata subito paragonata a Joyce e a Virginia Woolf, di cui lei allora sapeva molto poco, perché scriveva d’istinto, e d’istinto costruiva un mondo letterario pieno di immagini, visionario, animalesco e sfacciato. Senza nessuna paura di indagare che cosa c’è oltre i limiti consapevoli dei nostri legami più importanti, sempre davvero vicina al cuore selvaggio della vita. È morta a Rio de Janeiro nel 1977, dopo aver vissuto negli Stati Uniti, viaggiato e vissuto in Italia, studiato Spinoza e oggi è considerata una scrittrice importantissima del Novecento. “Lei, per paura, aveva tagliato il dolore. (…) Lo aveva tagliato senza neppure avere qualche altra cosa che di per sé sostituisse la visione delle cose attraverso il dolore di esistere, come prima. Senza il dolore, era rimasta senza niente, perduta nel proprio mondo e nell’altrui senza alcuna forma di contatto”, scriveva Clarice Lispector a proposito di Lori, la protagonista di “Un apprendistato o il libro dei piaceri” (pubblicato da Feltrinelli). Lispector sa che non si può vivere senza il dolore, e il suo dolore letterario è selvaggio come la gioia, il suo dolore è sregolato, impetuoso, come il flusso di coscienza di “Acqua viva” (in portoghese significa anche: medusa) che ha dentro di sé qualcosa che assomiglia allo stato di trance (ma lei scrive, secca: “Non c’è nessuna trance”), assomiglia alla lettera d’amore. “Cosa ti dirò? Ti dirò gli istanti. Esagero me stessa ed è solo allora che esisto e in un modo febbrile. Che febbre: riuscirò un giorno a smettere di vivere? Povera me, che tanto muoio. Seguo il tortuoso cammino delle radici che spaccano la terra, ho per dono la passione, nel fuoco di rami secchi mi torco fra le fiamme. Alla durata della mia esistenza attribuisco un significato occulto che va oltre me. Sono un essere simultaneo: riunisco in me il passato, il presente e il futuro, il tempo che batte nel tic tac degli orologi”. Si comincia a leggere “Acqua viva” (uscito per la prima volta nel 1973 e subuto acclamato come un capolavoro) con un’allegria e con la fame di qualcosa di travolgente, e si viene dalla prima riga risucchiati dentro la corsa delle parole, anzi presi per mano, ma di corsa, verso un viaggio intimo e impetuoso, solo in apparenza disordinato: questa coraggiosa assenza di controllo è piena di grazia e di rigore, ma anche di fastidio per le catene che non si possono spezzare. “Ah vivere è così scomodo. Tutto ti stringe: il corpo esige, lo spirito non si ferma, vivere sembra come aver sonno e non poter dormire… vivere non è confortevole. Non si può andare in giro nudi né nel corpo né nello spirito”. Ma i libri di Clarice Lispector offrono proprio questa sensazione, e soddisfano una necessità: andare in giro nudi nel corpo e nello spirito. “Guardami e amami. No: tu guardi te stesso e ti ami. E’ quello che è giusto”. E’ quello che è vero: lei lo scrive, e va avanti, divertita e sempre curiosa di scoprire che cosa succederà.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.