Gli occhi dei ragazzi del Bambino Gesù, e dei loro genitori: il senso di una dura lotta
“Quando sono tornata a casa dopo il primo mese e mezzo di ricovero mi sono messa a piangere, volevo tornare in ospedale: era cambiato tutto”
“Dovevo fare anche il corso da bagnino, avevo comprato il costume nuovo, la cuffia, tutto avvolto nella carta, dentro la busta. Poi è successo quello che è successo, è ancora tutto dentro la busta, non l’ho più toccato. Il destino fa schifo”.
Clizia, 17 anni, nuotatrice
Clizia nuotava tutti i giorni, in acqua era felice e non aveva mai paura. A casa con i genitori e le sorelle non aveva mai paura. Gli occhi azzurri meravigliosi, come quelli di sua madre. A volte aveva male ai polpacci, quando usciva dall’acqua, e alla testa. Due anni fa le hanno diagnosticato la leucemia e l’hanno ricoverata in ospedale per un mese e mezzo, per curarla. E’ cambiato tutto, sono cambiati i suoi occhi, il suo corpo, è cambiata la sua famiglia adesso è diversa. Dopo due anni di cure la leucemia è in remissione, i capelli sono ricresciuti, Clizia torna in ospedale tutte le settimane per i controlli, per aumentare o diminuire la terapia, torna per sapere se può riprendersi la leggerezza o se l’ha perduta per sempre. Domenica prossima, durante la seconda puntata de “I ragazzi del Bambino Gesù”, su Rai Tre, un documentario di dieci puntate ideato da Simona Ercolani, che racconta attraverso la vita nell’ospedale pediatrico le storie di bambini e ragazzi sorpresi dalla malattia, non potrete staccare gli occhi da Clizia. Allegra, forte, malinconica, arrabbiata, ironica.
“Quando sono tornata a casa dopo il primo mese e mezzo di ricovero mi sono messa a piangere, volevo tornare in ospedale: era cambiato tutto”. Sua madre dice con un sorriso che Clizia ha perso tante cose in questi due anni, tante cose che sembrano banali ma che per crescere sono importanti. Clizia però adesso dice: “Io non c’ho paura”, e va a fare per la prima volta il bagno in mare, con altri ragazzi del Bambino Gesù, con i medici, con una nave offerta dalla Marina militare, vanno a Ponza, e lei non riesce a tuffarsi, e le manca il fiato dopo poco (“facevo tre ore e mezzo ogni giorno, adesso sono stata a mollo neanche mezz’ora”), ma capisce che quel bagno è il “punto di inizio di una nuova vita”.
Clizia ha attraversato il fuoco, e non ne aveva nessuna intenzione. Tutta la sua famiglia ha attraversato il fuoco. La più grande forza di questo racconto sincero e importante della vita in ospedale, tra la speranza e la paura, è fatta di sguardi. Sono gli occhi dei bambini, e dei loro genitori. Gli occhi pieni di gioia, sopra le mascherine, della madre e del padre di Roberto, 17 anni, quando il medico dice che il trapianto di midollo (fatto grazie alla donazione di sangue della madre, “una prima volta l’ho messo al mondo, questa volta cerco di aiutarlo a restarci”) sta andando bene.
Non è soltanto gioia: è stanchezza, vita, consapevolezza, coraggio, è il senso di una lotta. Genitori su una sedia accanto al letto che giocano infinite partite a scacchi, che simulano l’allegria o che la provano veramente, per il solo fatto di essere lì, con la mano accanto alla mano di un figlio. Simone ha 5 anni e sua madre si è trasferita con lui a Roma, in una casa famiglia che ospita altri bambini e altre mamme, per vincere la leucemia. Simone gioca, corre, ride, ha fame, non ha i capelli, ha le guance gonfie per la chemioterapia, gli occhi di sua madre brillano di amore e di attesa, di voglia di tornare a casa dagli altri figli, ma anche di una specie di attesa fiduciosa. “Quando sei qui dentro, non ci credevi ma diventi forte”. E Simone non vuole prendere la medicina, è stanco, è arrabbiato, ha negli occhi un senso di ingiustizia, di esasperazione, gli altri bambini adesso sono al mare e lui è in ospedale, gli altri bambini sono all’asilo e lui è in ospedale, ma la madre gli dice: “Non ti permettere mai di buttare le medicine”. E lui obbedisce, perché ha solo cinque anni ma ha già imparato la vita che cos’è.