“Figli fragili” dentro un'epidemia di felicità.
Il dovere di esultare sempre e di non fermarsi mai
“Piangere mi tranquillizza, mi aiuta a stare calma e a non essere ossessionata dal peso dei problemi della vita”
Tristezza, in “Inside Out”
Senza tristezza non può esserci riflessione, pensiero, pentimento, senza tristezza non può esserci nemmeno gioia, quindi la ragazzina grassottella e blu con gli occhiali e il golf a collo alto, Tristezza (una delle cinque emozioni insieme a Gioia, Paura, Rabbia e Disgusto), aiuta Riley a crescere, ad accettare la complessità della vita, e anche le lacrime. Ma la positività di Tristezza, scrive il neuropsichiatra infantile Stefano Benzoni nel saggio “Figli fragili”, pubblicato da Laterza, ha senso solo ed esclusivamente se si accetta che la felicità è lo stato mentale “di base”, atteso e desiderato: il nucleo essenziale delle esperienze umane, la condizione primaria dei nostri figli. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di felicità, adesso? Chi sono i figli felici, a quale modello appartengono? Un biondino di undici anni non gioca bene a tennis, non ne ha voglia, e se si cerca di scuoterlo, come fa il maestro lanciandogli la racchetta contro le reti di protezione, si chiude di più, rinuncia, si oscura.
Il maestro dice al padre: “È qualcosa di più del semplice non avere le palle, bisogna portarlo da qualcuno, ma da qualcuno serio, che qui sotto se non è depressione poco ci manca”. E’ una delle esperienze cliniche di Stefano Benzoni. Il padre a casa ne ha parlato con la moglie, e poi con i parenti, le amiche di lei, i colleghi di lui, lo psicologo scolastico e con altre mamme di compagni di scuola. Alla fine è arrivato il foglietto ripiegato con il numero di uno psichiatra infantile. Perché il bambino biondo non era abbastanza euforico di andare a giocare a tennis, non giocava con successo, non era competitivo, non lanciava urli di gioia e non gli importava nulla del maestro.
Secondo Stefano Benzoni questo è lo scenario distopico della felicità, intesa come qualità obbligata e necessaria dell’esistenza, in assenza della quale bisogna forse ammettere di soffrire di un problema psicologico, come rassicurazione sociale, come dimostrazione di impegno. Il ragazzino biondo probabilmente odiava il tennis e amava qualcos’altro, non era per natura euforico e cool, ma è necessario essere anche cool. Anche se l’idea di una bella vita, di una felicità, è per ogni famiglia un fatto intimo, ha una misurazione personale e sempre diversa (mio figlio è felice se può stare a testa in giù sul divano, è felice se io lavoro da casa, è felice se può dormire abbracciato al suo cane, è felice se andiamo a mangiare la pizza tutti insieme, è felice di non giocare a calcio), ci sono anche “coordinate ideologiche”, scrive Benzoni, valori pubblici che indicano che cosa è giusto aspettarsi e a che cosa ciascuno di noi dovrebbe aspirare. Un figlio con molti follower, con molti like su Instagram, un figlio con una vita sociale intensa e almeno qualche successo sportivo. Capace di tenere testa agli altri. Allegro, molto allegro. E “alla ricerca costante di una nuova identità”.
Quando la pura felicità scompare, quando vola via la gioia semplice di essere al mondo, quando cioè si diventa adolescenti e si sente addosso lo sguardo degli altri, allora ecco “l’ingiunzione morale che incarna l’idea stessa di come ci si aspetta che siano le persone felici: sempre attive, piene di interessi, iniziative, amicizie, contatti, programmi”. Mai fermi. Mai felici e fermi. Essere fermi è un segnale di infelicità, quindi forse di una minaccia alla salute mentale. La piccola Tristezza di “Inside Out” ha il suo trionfo, sempre al servizio di Gioia, ma questa epidemia di doverosissima felicità non aiuta i figli a diventare più forti e coraggiosi. Piuttosto, li terrorizza: se non sei abbastanza entusiasta, se non urli di gioia quando vinci un set a tennis, allora c’è qualcosa che non va.