Quanta vita perdo, e ho perso. Storia di un cambio di sguardo, e di un desiderio che non finisce
La vita dei giorni sulla sedia a rotelle, la rabbia nello stomaco, le scarpe buttate via in fretta, i neuroni specchio che ti fanno danzare mentalmente se guardi qualcuno danzare
Presto ho scoperto di essere morta.
Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, essenza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva.
Alessandra Sarchi, “La notte ha la mia voce” (Einaudi Stile Libero)
A vent’anni lei credeva che sarebbe rimasta per sempre giovane e carina. Si guardava allo specchio e pensava a quella come alla sua forma definitiva. Lo facciamo tutti: il tempo non ci sfiorerà, il male nemmeno, siamo invincibili, è la grandiosità della giovinezza, non c’è niente oltre all’eternità di quello stato di forza. “Dieci anni dopo, ero nella condizione di chi non ha immagine di sé, di chi non può averla perché non c’è più niente che corrisponda ai canoni, alle mode. Mi sentivo tagliata fuori dal desiderare collettivo”. Un incidente, qualcosa che viene incontro nel buio e si scoprirà dopo essere il parafango di un camion, l’auto che si ribalta sulla A1, la sponda fangosa di un fosso, lei con la cintura di sicurezza slacciata, “e non c’è stato tempo. Non ci sarà mai più tempo”. Questo romanzo non ci nasconde niente, non ci risparmia niente. Rivela quello che prova un corpo dentro un sacrificio inutile, “non te l’aveva chiesto nessuno”, e che cosa succede nel contrasto fra la libertà del cervello e l’immobilità del gambe, la sensibilità perduta che non è perduta affatto, perché si sente tutto da un’altra parte, e quella parte guarda le persone d’estate: “Noto lo scivolare altrui di un piede accaldato fuori dal sandalo, verso la libertà del contatto con il fresco, il sollievo dei passi calcati in quella promiscuità costante che la pianta mantiene col suolo, e ancora di più quando mi trovo in una situazione insolita, sulla sella di una moto, o al mare quando rimango prigioniera di un lettino sulla sabbia finché qualcuno non mi porta in acqua, in quei rapidi momenti di passaggio fra l’essere ferma e il ritrovarmi accelerata, all’improvviso mi rendo conto di quanta vita perdo, e ho perso”. La voce narrante ha un compagno giovane e una figlia piccola, una bambina da mettere a letto ogni sera con le favole, e racconta di sé, della propria carne che è anche la carne di Alessandra Sarchi, l’autrice di questo romanzo durissimo e diretto che trasporta chi legge dentro altri corpi e altri sguardi, e mostra una verità non addolcita, non poetica, non consolante ma viva, quindi forte, seria, precisa.
La vita dei giorni sulla sedia a rotelle, la rabbia nello stomaco, le scarpe buttate via in fretta, i neuroni specchio che ti fanno danzare mentalmente se guardi qualcuno danzare. Camminare elegantemente se guardi le gambe eleganti di Kate Moss. Non è solo il desiderio, è proprio quella funzione che hai perduto per sempre, scarpe con i tacchi o piedi nudi sulla sabbia, che rimane viva dentro di te e può perfino darti le emozioni che proveresti compiendola. “Un po’ come succede con la pornografia”, dice Giovanna. Giovanna è l’incontro che cambia le cose, l’amicizia che offre un nuovo modo e anche l’immersione in un mondo diverso, notturno, forse distorto. Anche Giovanna non può usare le gambe, e possiede un ardore, un incantamento, un desiderio. Il suo desiderio fa rinascere i desideri sepolti della sua nuova amica, che non ha ancora capito quanta rabbia si può permettere, e che non finirà mai di stupirsi per il suo orizzonte abbassato all’altezza delle maniglie, dei pulsanti degli ascensori. “Mi sembra così evidente, ora, che camminando non facciamo altro che scrivere chi siamo”. Ma questa non è soltanto una confessione coraggiosa e asciutta, è una storia che ha dentro una liberazione, e una dolcezza.