L'amore e la libertà interiore di andare incontro al proprio destino
La storia di un viaggio verso casa, la Libia, dopo una vita vissuta altrove. L'ultimo romanzo di Hisham Matar, "Il ritorno"
Sebbene non tollerasse la superstizione, credo che mio padre abbia vissuto come un cattivo presagio un fatto accadutogli il primo giorno di lavoro a New York. Mentre attraversava la First Avenue diretto al palazzo delle Nazioni Unite, vide un camion investire un ciclista, le cui membra si sparpagliarono sull’asfalto. Mio padre reagì raccogliendo i brandelli di carne e ossa e deponendoli rispettosamente accanto al busto, che insieme alla bicicletta contorta era atterrato sul marciapiede. Ho sempre associato i violenti e irrevocabili cambiamenti vissuti dalla mia famiglia e dal mio paese nei quarant’anni successivi a quell’immagine di mio padre – un poeta diventato ufficiale diventato, suo malgrado, diplomatico – in abito scuro e cravatta, lontano da casa, che raccoglie i pezzi di un uomo morto. Aveva trentun anni.
Hisham Matar, “Il ritorno” (Einaudi)
Hisham Matar ha lasciato la Libia quando aveva otto anni, è scappato con la sua famiglia, padre madre e fratello maggiore. Vive a Londra, ma qualche anno fa è tornato nella terra di suo padre, per cercarlo, vivo o morto, per ritrovare i ricordi e la propria identità di esule e di figlio che non ha mai potuto seppellire suo padre, eroe dell’opposizione al regime di Gheddafi. Matar, scrittore diventato famoso per “Nessuno al mondo” (Einaudi, 2006), è tornato in Libia a quarant’anni, con sua madre e sua moglie, non convinto che fosse una buona idea, per ragioni razionali ed emotive insieme. “Sono viaggi senza dubbio temerari, e quello cui mi accingevo avrebbe potuto privarmi di una capacità che avevo coltivato con enorme fatica: la capacità di vivere lontano dai luoghi e dalle persone che amo. Joseph Brodsky era nel giusto. E anche Nabokov e Conrad. Artisti che decisero di non tornare. Avevano tentato, ognuno a suo modo, di guarire dal proprio paese. Ciò che ti sei lasciato alle spalle è dissolto. Torna e dovrai affrontare l’assenza o il disfacimento di ciò che più amavi. Ma anche Dmitrij Sostakovic, Boris Pasternak e Nagib Mahfuz erano nel giusto: mai lasciare il proprio paese. Parti e ogni legame con l’origine sarà reciso. Sarai come un tronco morto, duro e cavo. Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?”.
Per tre mesi Matar in Libia ha soltanto preso appunti, non è riuscito a scrivere niente, ha pensato perfino di cambiare mestiere, fino a che ha letto i suoi taccuini a voce alta, come se riguardassero un altro, e ha capito che questo era il libro, “Il ritorno”, che non è un memoir perché è di più, è una riflessione sulla storia, sulla famiglia, sull’assenza, sull’essere un figlio attraversato dalla storia di un popolo e dall’eroismo e dalla forza di suo padre, sequestrato nel 1990 e rinchiuso nella orribilmente famosa prigione libica di Abu Salim. Padre mai più ritrovato, forse giustiziato sei anni dopo, forse ancora vivo nella speranza dei fratelli, ma comunque vivo nel passato, nel presente e nel futuro. Hisham Matar va in fondo al mistero che è ogni padre per suo figlio, e anche al bisogno di ribellarsi ai padri. Lui, cresciuto accanto a un uomo integro, coraggioso, indipendente, ossessionato dal suo paese, avrebbe voluto soltanto salvarlo. La ribellione era soltanto paura per il suo destino, timore per le conseguenze delle sue convinzioni. Voleva fargli cambiare strada, avere accanto un padre fermo e tranquillo. “Come quel famoso figlio nell’Odissea desideravo essere ‘figlio di un uomo felice, che arriva alla vecchiaia con tutti i suoi beni’”. E invece si è trovato, a diciannove anni, con una madre da proteggere, un conto in banca svuotato dai bisogni dei dissidenti, il tormento per un padre caduto dentro un abisso di torture, e un’immane brama di certezza. “Invidio l’irrevocabilità dei funerali”, la possibilità di avvolgere le mani intorno alle ossa, di piangere un lutto. Il ritorno in Libia è, nel racconto pacato anche dentro il tumulto della memoria e delle scoperte (le poesie che il padre recitava tutta la notte in prigione, e che gli altri detenuti ascoltavano mentre piangevano), la storia dell’amore e della libertà interiore, che va incontro al proprio destino e si nutre di un dolore acutissimo, continuo, addolcito dalla tenerezza per quello che non potrà mai morire. Il ricordo lucente di quello che è stato, la certezza che un figlio contiene, sempre, anche suo padre.