Storia di Irene e della posizione sbagliata
Sette storie nude che raccontano una vita in bilico
Andavo via e tornavo sempre, perché anche da qualche altra parte avevo assunto una posizione sbagliata e non c’era modo nella mia vita di fare una cosa giusta, come la facevano tutti, o come se l’aspettavano. Come tutti avrebbero preferito, per se stessi e con benevolenza anche per me.
Ilaria Macchia, “Ho visto un uomo a pezzi” (Mondadori)
Irene ha sempre i tacchi alti. Non sa dove sta andando, in bilico su questi tacchi, ma è in movimento. Lei va, torna, si spoglia, fuma in balcone, piange, si rialza, esce correndo, incontra un uomo, fa un figlio, attraversa gli anni. Sentendosi guastata dalla colpa di stare sempre nella posizione sbagliata. Irene sente gli occhi di tutti addosso, e anche i suoi. Non solo perché è bella, ma perché è colpevole. Di quello che fa nella stanza da sola, nuda, di quello che fa nella vita delle persone, di qualcosa che ha fatto a sua sorella, anche, di un male che ha dentro la pelle e che le impedisce di vivere totalmente e anche di avere uno sguardo intero, limpido, sull’esistenza e sulle persone che le stanno accanto. Irene a volte sembra cattiva, stupida, disperata. Allo stesso tempo indifferente e affamata. Accade, ed è come una scoperta, come un riconoscimento, di trovare nei libri un personaggio e di sentirlo vicino, di comprenderlo anche mentre lo si detesta. Perché ci sta dicendo qualcosa su di noi, perché illumina una zona d’ombra e possiede le parole per renderla viva: quell’ombra adesso ha un nome, Irene, e sette storie nude che la riguardano.
Sono racconti, i primi racconti di Ilaria Macchia, che inizia il suo cammino di scrittrice da un punto alto, perché chi legge queste sette storie compiute sente di avere tra le mani un’unica storia, una sola esistenza: la corsa di Irene, che all’improvviso lascia Daniele, che scava un buco in muro per scappare, che guarda da lontano, sugli scogli del Salento, il corpo dell’uomo con cui ha fatto un figlio e per la prima volta lo vede intero, e non lo riconosce, Irene che vive dentro la sua testa un’ossessione d’amore, e che quando non ce la fa più torna dai genitori, “che anche da grandi erano bambini”, e nei dettagli, le mani strette alle loro mani sul tavolo della cucina, si rasserena. “Mio padre cercò di distrarsi, un po’ guardava il mare, un po’ affondava le mani nella sabbia. Restò in silenzio a lungo. Ma poi disse: “Verrà a riprendere il bambino”. “Lu piccinnu è miu”. Il bambino è mio, dice Irene che è scappata via da Bologna, in macchina con il piccolo sul sedile dietro, giù fino al mare. Ha sbagliato, perché lei vive da sempre nella posizione sbagliata, vergognandosi, e si sente responsabile del disamore che le sta attorno e dentro, “ma questa volta sentivo di avere fatto tutto bene, per tutti. La felicità che stava dentro casa mia come mai mi ricordavo valeva le paure che avevano rischiato di farmi sbandare lungo tutta l’autostrada”. Quando Irene sbaglia, sbaglia forte, sbaglia fiera. Quando sente di amare, ama forte, ama decisa, anche contro la realtà, anche senza la realtà. Non vede tutto, non ci riesce, ma qualcuno davvero ci riesce? A prendere in mano la propria esistenza, a tenerla rotonda e compiuta nella mani, a stare nella posizione giusta, verticale, a dire le cose giuste? Irene dondola sull’abisso, poi forse si salva per un po’, e ricade. E’ la sua storia, è la nostra storia.