L'atlante delle emozioni umane è più complesso di quanto pensiate
Se provate un risentimento misto a un desiderio di vendetta, è il Lìtost, e sono guai
State guardando un talent show. Un concorrente sale tutto baldanzoso sul palco, si vanta di quanto sia bravo e di quanto sia bella la sua voce… poi comincia a cantare I will Survive. Ed è un’esibizione raccapricciante. Vorreste gettare la tv dalla finestra (“Non ce la faccio! Fa troppo schifo!”), ma non riuscite a trattenervi dal dare un’occhiatina allo schermo.
Tiffany Watt Smith, “Atlante delle emozioni umane” (Utet)
Anche questa è un’emozione, anzi un tormento, un’umiliazione vissuta per interposta persona che però offre anche un godimento, oltre all’imbarazzo. Siamo noi sul palco a cantare malissimo I will survive, siamo noi a fare una figuraccia davanti a tutti e a non accorgercene, quindi siamo noi che non riusciamo a staccare gli occhi. In italiano non c’è una parola per definire questo stato d’animo, questo rossore, ma in spagnolo sì: si dice verguenza ajena. In Germania, dove c’è una parola lunga per tutto, Fremdschamen (vergogna esterna), in Olanda plaat svervangende schaamte (la vergogna provata nel mettersi al posto di qualcun altro). In Finlandia si parla di myotahapea (vergogna condivisa). Negli altri paesi si può soltanto fremere di imbarazzo, ma senza una vera dignità di esistenza a quest’emozione, senza sapere davvero che cosa si prova. Ecco perché serve un atlante, che ci dica che Awumbuk è il senso di vuoto che rimane dopo la partenza di un ospite gradito, una specie di apatia mista al sollievo di ritrovarsi soli, una foschia che aleggia per tre giorni nella tribù baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea. “Atlante delle emozioni umane, 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai” (pubblicato in Italia da Utet, con la traduzione di Violetta Bellocchio), è stato scritto da Tiffany Watt Smith, una storica culturale, studiosa di filosofia e di teatro, appassionata agli studi sui neuroni specchio, che racconta le emozioni, in ordine alfabetico come in un vocabolario, attraverso la letteratura, la storia, l’arte.
Sappiamo tutti distinguere la noia dalla curiosità, ma se abbiamo letto “Il libro del riso e dell’oblio” di Milan Kundera sappiamo che non possiamo neanche immaginare di comprendere l’animo umano senza la parola Lìtost, un’emozione cecoslovacca che descrive il vortice di vergogna, risentimento e furia che ci solleva da terra quando ci accorgiamo che qualcun altro ci ha reso infelici, lo “stato tormentoso suscitato dallo spettacolo della nostra miseria improvvisamente scoperta. (…) un tormento seguito dal desiderio di vendetta”. Il desiderio di punire chi ci ha tormentato, al punto che la nostra stessa rovina passa in secondo piano: se avete provato un impulso del genere, se state per provarlo, chiamatelo Lìtost, e lui vi risponderà, magari vi calmerete. Se vi sentite strani, un po’ arrabbiati, forse infelici, sfogliate questo atlante e troverete l’inquietudine adatta a voi. Anche solo la meraviglia di: sentirsi a casa. Ci sono infatti anche sentimenti positivi, morbidi, c’è l’estasi, l’euforia, la speranza, lo stare bene con se stessi, il coraggio, lo spaesamento, e c’è il Viraha, che in sanscrito significa: brama, desiderio, o anche quel particolare tipo di amore che si prova quando interviene una separazione o un abbandono. Viraha è la sensazione di essere incompleti in assenza della persona amata, e la fantasia d’amore che ne consegue, il pensiero all’estasi che seguirà alla riunione tanto attesa. Si veda anche alla voce: amore. “E quanto sono piacevoli le emozioni degli altri! Molto più piacevoli delle idee altrui, pensava”. Lo scrive Oscar Wilde nel Ritratto di Dorian Gray, ma anche le nostre emozioni non sono da buttare, quando riusciamo a capire esattamente che cosa stiamo provando.