La passione semplice di Annie Ernaux
Ho misurato il tempo con il mio corpo. Ho scoperto di cosa si può essere capaci, cioè di tutto
Quando ero bambina, lusso significava per me pellicce, abiti lunghi e ville sulla riva del mare. Più tardi, ho creduto che fosse condurre una vita da intellettuale. Mi sembra ora che sia anche poter vivere una passione per un un uomo o per una donna.
Annie Ernaux, “Passione semplice” (Bur)
Ho letto “Passione semplice”, che in Francia è uscito per Gallimard nel 1991, soltanto adesso, in una ristampa Bur dello scorso settembre, seguendo l’impulso di sapere tutto di Annie Ernaux, che ha affrontato tutti i temi dell’esistenza attraverso l’autobiografia, l’esposizione di sé, la vita come pretesto per scrivere. Questa volta è una passione devastante, l’amore per un uomo sposato, ed è soprattutto l’attesa di lui. “Sin dal mese di settembre dello scorso anno, non ho fatto nient’altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me”. Non esisteva più il presente, ma solo l’attesa o l’assenza di lui, che la chiamava dalle cabine telefoniche, che arrivava in macchina, che non bussava e subito la spogliava. “Non avevo altro avvenire che la prossima telefonata d’appuntamento”, scrive Annie Ernaux, e rivela un’ossessione, una dipendenza, qualcosa di costante che la domina e fa sbiadire tutto quello che non è quell’uomo biondo, che ha una vaga somiglianza con Alain Delon, beve molto e a volte rutta mentre la bacia ma a lei non dà fastidio. E’ una passione semplice, fatta di sesso e di rapimento, che Annie Ernaux avvicina alla dominazione della scrittura, un modo sicuro per misurare la forza del desiderio e del bisogno. In tutto il tempo in cui la protagonista di questo breve romanzo ha visto quell’uomo, l’ha amato ed è stata amata e posseduta da lui, nient’altro ha avuto importanza, nemmeno i figli, il lavoro di insegnante, gli amici, niente.
Tutto quello che faceva lo faceva meccanicamente, senza voglia, senza reale partecipazione di raziocinio o volontà (ridere, uscire a cena, andare al cinema, fare la spesa), tutto quello che invece le interessava aveva un legame con lui. Leggere nel giornale gli articoli sul suo paese (era straniero), scegliere come vestirsi e truccarsi, scrivergli lettere, cambiare le lenzuola e mettere fiori in camera, annotare ciò che non doveva dimenticare di dirgli, la prossima volta, che avrebbe potuto suscitare il suo interesse, comprare whisky, frutta, cibo per la serata insieme, immaginare in quale stanza avrebbero fatto l’amore al suo arrivo. Come quando uno scrittore ha in testa un libro, e gli importa solo di quello, può andare anche a fuoco la casa ma il nucleo dei pensieri non cambia, e il tempo fuori dalla scrittura è comunque sbiadito, insignificante, perché la vita vera si svolge dentro quella storia, dentro quella ossessione. Ogni volta che parla di sé, infatti, Annie Ernaux parla di scrivere. La passione per quest’uomo, vera o immaginata, le ha dato una nuova possibilità: raccontare la febbre del corpo, senza nessuna vergogna, il prima e il dopo, e quell’istante di presenza che vola via ed è già una promessa di dolore. “Quando si frapponeva un intervallo più lungo, tre o quattro giorni, tra la sua chiamata e la sua venuta, mi immaginavo con disgusto tutto il lavoro che avrei dovuto fare, i pranzi di amici a cui avrei dovuto partecipare, prima di rivederlo. Avrei voluto non avere null’altro da fare che attenderlo. E vivevo nella crescente ossessione che qualcosa sopravvenisse a impedire il nostro appuntamento”. Durante un viaggio da sola, a Firenze, avrebbe voluto stare soltanto sdraiata sul letto ad aspettare il giorno del ritorno a Parigi. Non c’è ironia, non c’è derisione, non c’è nemmeno il tentativo di spiegare quella passione, o di prenderne le distanze come si fa con qualcosa di folle, c’è l’esposizione di una dipendenza che parte dal corpo e si infila dentro, annebbia la mente. “Ho conservato senza lavarlo un bicchiere in cui aveva bevuto. Ho desiderato che l’aereo col quale ritornavo da Copenaghen si schiantasse se non avessi dovuto più rivederlo”. E ha trasformato in parole “quel che il suo semplice mi ha arrecato”. E’ stata, ancora una volta, più fortunata di lui.