Anche le sante hanno una madre
Il rapporto fra una madre normale e una figlia eccezionale, per questo irritante, imperscrutabile, spaventosa
Durante la nostra ultima telefonata le dissi di avere avuto delle forti premonizioni. Lei m’interruppe: “Un po’ di realismo! Potrei essere a tre isolati da casa a un corso di Analisi matematica, con la cintura della sedia allacciata (se i banchi fossero così equipaggiati), e tu staresti comunque a fare il girotondo della cucina e mi chiameresti sul cellulare nell’unica ora di pausa pranzo con il tuo problema dei brutti presentimenti. E’ un miracolo se le persone a cui vuoi bene sono sopravvissute al tuo pessimismo per più di una settimana. E soprattutto tu”.
Allan Gurganus, “Anche le sante hanno una madre” (Plalyground)
Fino a qui, non c’è niente di diverso. Una figlia lontana che si lamenta della preoccupazione di sua madre, una brava ragazza che sbuffa nel telefono e pensa: ma perché non mi lascia in pace, non si fa una vita? Però questa storia, vista con gli occhi della madre di provincia divorziata, egotica e apprensiva, è illuminata e complicata dall’immensa generosità di questa ragazza bellissima, bionda, geniale e buona, ribattezzata da sua madre, appunto, “la santa”. “Spesso mia figlia regalava le mie scarpe. Zoccoli di gomma color arancio, ballerine Easy Spirit, tutto migrava nottetempo dalla mia camera alla volta dei poveri. Mi piantava in asso con l’armadio completamente ripulito. Lasciava la sua mamma – vestita di tutto punto e con le chiavi della macchina in mano – sollevata dalla grave colpa di possedere un paio di scarpe”. Caitlin è meravigliosa, affettuosa, intelligentissima, e fin dall’età di tre anni dedita all’accoglienza (“quella non è una bambina, è proprio la Croce Rossa Americana, cavolo”, dice la vicina di casa), apre la porta a tutti, salva gli animali, e al supermercato sta per andarsene mano nella mano con un vecchiaccio, probabilmente molestatore di bambine, “perché aveva l’aria così triste, mamma. E diceva di avere bisogno di me, più di te”. Per lei nessuno è estraneo, nessuno è pericoloso, finisce sempre sui giornali locali per l’efficienza del suo buon cuore, insomma è così speciale da fare, letteralmente, paura. Ammirazione e orgoglio, certo, ma soprattutto paura. La prossimità, la vicinanza a qualcuno di tanto straordinario fa sentire inadeguati, e a una madre fa anche spavento.
“Ero fiera, certo; ma anche preoccupata e – a dirla tutta – sempre un po’ innervosita. Avevo paura per lei, mi capite? Già prevedevo, infastidita, lo sfinimento che la sua grande disponibilità sarebbe costata a lei, e quindi a me. E’ sbagliato desiderare che un figlio superi sano e salvo – salvato da un sano egoismo – i diciott’anni? Sentivo cosa rischiava Cait per quell’eccesso di pregi”. Le premonizioni di questa madre ironica, ansiosa e cinica hanno il loro momento di dolorosissimo trionfo, quando Caitlin, che assomiglia a Ingrid Bergman ed è amata da tutti, parte per l’Africa e scompare. Questo romanzo breve di Allan Gurganus, settant’anni, ex marine e padre di sei figli, diventato famoso con “L’ultima vedova sudista vuota il sacco”, è pieno di humour e di a volte insostenibile leggerezza, che svia e complica la verità di questo rapporto fra una madre normale e una figlia eccezionale, per questo irritante, imperscrutabile, spaventosa. Difficile essere sua madre, e difficile non sentire la competizione, quello scatto mentale che fa dire, nei momenti più assurdi: e io? Non è forse merito mio? “Sentite, quando una donna qualsiasi partorisce una creatura speciale, non vi pare che la mamma diventi speciale, almeno un po’? E quando la sua qualcuno scompare, la mamma non dovrebbe forse – come una specie di seconda in classifica – sostituirla per completare il regno della regina venuta a mancare?”. Il regno della regina venuta a mancare: anche di questo è fatto lo specchiarsi continuo di madre e figlia, l’assomigliarsi e il respingersi. E se una delle due è santa, tanto peggio.