Storia di Emerenc, che non apriva mai la porta ma spalancò il cuore a Magda
La padrona e la sua domestica, l’intellettuale incapace di gestire la vita pratica e la donna abituata alla fatica, forgiata nella fatica
Su, se ne vada – disse Emerenc calma – Non si è mai comprata una casa, e pensare che gliel’avevo chiesto, e le avrei dato dei tesori per arredarla, non ha messo al mondo dei figli, eppure le avevo promesso che glieli avrei allevati. Rimetta il cartello al suo posto sulla porta perché non voglio più vedere nessuno di quelli che hanno assistito alla mia vergogna. D’ora in avanti faccia pure quel che vuole. Lei non è capace di amare, eppure mi ero illusa che lo fosse. Mi ha salvata? Per vivere la vita che mi aspetta? E mi prenderebbe con sé, e mi manterrebbe? Che stupida! Se ne vada, vada a dire le sue cose in televisione, scriva romanzi, corra di nuovo ad Atene. Se mi fanno uscire da questo posto e mi riportano a casa, nessuno provi ad avvicinarsi, perché prendo le forbici che ha lasciato Adél e le pianto nella gola del primo che passa.
Magda Szabò, “La porta” (Einaudi)
Questo romanzo è stato pubblicato per la prima volta in Ungheria nel 1987 ed è la storia di un confine. Fra due mondi diversi del Novecento che arrivano a toccarsi dove era inimmaginabile, e fra due donne molto diverse, che diventano l’una la custode dell’altra, l’una l’ossessione dell’altra. La padrona e la sua domestica, l’intellettuale incapace di gestire la vita pratica e la donna abituata alla fatica, forgiata nella fatica. Diventano madre e figlia, diventano sorelle, nemiche, amiche, diventano la vita da vivere. Magda Szabò ha raccontato, in questo libro importante che io ho letto soltanto adesso, la rivelazione di una figura mitologica che ha sconvolto la sua esistenza, l’ha migliorata, devastata, le ha fatto perdere ogni certezza, l’ha resa figlia quando credeva di non esserlo più e salvatrice quando non era capace di esserlo: la donna che doveva aiutarla a tenere in ordine la casa mentre lei lavorava alla macchina da scrivere o partiva con il marito per lunghi viaggi fu l’incontro assoluto della sua vita. Si chiamava Emerenc, era vecchia ma fortissima, sollevava mobili, cucinava piatti prelibati, affermava la sua idea di giustizia, non accettava domande indiscrete e non ne faceva, era troppo saggia per tentare imprese impossibili ma metteva tutto ciò che aveva, tutta l’energia e l’amore burbero e la comprensione dell’animo umano, a servizio di Magda, la scrittrice, la donna che per Emerenc viveva in un modo incomprensibile e ozioso, sostenendo di lavorare pur senza svolgere nulla di concreto. Ma non è un romanzo sul confronto fra il lavoro intellettuale e quello manuale, o sulla divisione delle classi sociali, è una storia intensa d’amore, riconoscimento e delusione. Dare tutto quello che si ha senza condizioni e credere di dare tutto, ma non fare abbastanza.
“Una sola volta nella mia vita, nella realtà e non nell’anemia cerebrale del sonno, una porta si spalancò davanti a me, la porta di una persona che voleva difendere a ogni costo la propria solitudine e la propria misera impotenza, che non avrebbe mai aperto nemmeno se le fosse crollato addosso il tetto in fiamme. Solo io avevo il potere di vincere quella serratura: la donna che girò la chiave aveva più fede in me che in Dio, e io stessa, in quell’istante fatale, credetti di essere saggia, buona, razionale, come Dio. Ci sbagliammo entrambe, lei che si fidò di me, io che confidai troppo in me stessa”. Emerenc era diffidente, orgogliosa, fiera di sé e del suo talento per la vita domestica, esigente, perfezionista e libera: sceglieva da sola gli orari di lavoro e i compiti che decideva di non svolgere, non lasciava entrare nessuno in casa sua, stabiliva distanze di sicurezza e custodiva segreti che camminavano insieme alla storia più drammatica del Novecento e metteva da parte i soldi per la tomba più bella che si potesse immaginare, “la mia sarà diversa da tutte le altre”. Era forte, più forte di Magda, più forte di una signora che batte a macchina tutto il giorno, era un’eroina anziana tradita da un ultimo sogno: amare un’altra donna come una figlia, anzi come la parte più importante di sé.