Non si può non credere a Julia Kristeva, ora che ci parla di perdono restando in movimento
La desoggettivazione è una disorganizzazione profonda della persona, significa che l’io non esiste, esiste soltanto una pulsione di dissociazione pronta a gioire per la morte
Cerco le logiche del male estremo. Noi scopriamo che, a seguito di disintegrazioni familiari e carenze sociali, certe persone – specialmente gli adolescenti – soccombono alla malattia d’idealità: letteralmente esplodono, incapaci di distinguere il bene dal male, l’interno dall’esterno, il soggetto dall’oggetto. Delle due pulsioni che ci abitano, quella di vita e quella di morte, è la pulsione di morte che riassorbe la vita psichica, che sprofonda nella distruttivi cieca e infine auto distruttrice. Il bisogno di credere crolla nell’impero della desoggettivazione e della deoggettivazione, accompagnato da un pensiero insensato o dal vuoto dell’apatia.
Julia Kristeva, “La notte della giustiziaall’alba del perdono” (Edb)
La desoggettivazione è una disorganizzazione profonda della persona, significa che l’io non esiste, esiste soltanto una pulsione di dissociazione pronta a gioire per la morte, e la deoggettivazione riguarda l’altro, che non ha più senso né valore. E’ qui che, in termini psicoanalitici, trionfa la malignità del male. Come è successo nella scuola in Florida, come sappiamo che succede. E’ questo il “male radicale”, e la domanda di Julia Kristeva è: che si fa? Che facciamo? Julia Kristeva è una semiologia e psicanalista bulgara naturalizzata francese, professore emerito a Parigi, allieva di Roland Barthes, ha lavorato con Michel Foucault e Jacques Derrida. Bellissima, ha sposato nel 1967 lo scrittore, saggista e filosofo Philippe Sollers, con cui ha teorizzato, e incarnato, il matrimonio come campo di battaglia, come incontro fra due stranieri. Io ho incontrato il suo pensiero di non credente e di umanista quando Julia Kristeva ha scritto di suo figlio disabile, David, e della tirannia della normalità. Mi hanno colpito la vitalità, la brillantezza, l’apertura al mondo, e l’incrollabile speranza negli esseri umani. “Alla nascita di David le prime preoccupazioni non avevano nome e dovevo fare come se tutto andasse bene. Fino al primo coma: due settimane in bilico fra la vita e la morte. Alcuni anni dopo, stessa prova. Infermiere oberate, la scienza neurologica per niente sicura di sé, cure più che approssimative: ho steso un materassino ai piedi del letto e non ho più lasciato l’ospedale”, ha scritto anni fa Julia Kristeva in un libro epistolare in cui guarda in faccia “l’intollerabile” e si muove nella speranza. Così ha fatto sempre, con la vita e con le parole. Adesso che parla di perdono, ascoltando Freud, Dostojevski, Simone de Beauvoir, Pascal e i teologi, io non posso evitare di crederle. Come si crede a una scrittrice, a una psicanalista, a una donna che vive profondamente immersa nel mondo contemporaneo, ma con uno sguardo che ha attraversato la storia senza sentirsi mai arrivata. Julia Kristeva porta sempre con sé questa idea di movimento continuo che mi affascina e mi entusiasma: “Non mi sento di umore conclusivo, non ancora: le prove mi hanno insegnato a vivere nell’apertura”. E’ tutto sempre in discussione, sempre in cammino. Anche la ricerca delle logiche del male estremo, davanti al quale non si deve mai demordere. Si deve invece proseguire pazientemente la ricerca, da quel punto fragile che Pascal definiva “movimento perpetuo”. E svelare il perdono come rivolto a qualcuno, non a qualcosa. Nella notte della giustizia, quindi, nascerà l’alba del perdono.