Margaret Atwood, le fantasie di stupro e altri disastri
C’è una distopia anche quando la distopia non c’è
Da come ne parlano sulle riviste c’è da pensare che sia l’ultima trovata, e non solo, ma che sia qualcosa di eccezionale, una specie di vaccino contro il cancro. Lo sbattono a caratteri cubitali in copertina, e dentro pubblicano questionari come quelli in cui ti chiedono se sei una brava moglie o se sei endomorfa oppure ectomorfa, te li ricordi? con il risultato capovolto a pagina 73, e poi questo cosi fai-da-te, hai presente? STUPRO, DIECI COSE DA FARE, come se fossero dieci acconciature nuove o qualcosa del genere. Insomma, dove sarebbe la novità?
Margaret Atwood, Fantasie di stupro (Racconti edizioni)
E voi, ragazze, avete fantasie di stupro? Una partita a carte durante la pausa pranzo nella mensa femminile, quattro colleghe, un po’ di ironia, anche imbarazzo, ingenuità, immaginazione. Lo sconosciuto che entra dal balcone tutto vestito di nero e con i guanti neri, oppure lo sconosciuto, però bello, che si infila insieme a lei nella vasca da bagno. Chiacchiere superficiali, silenzi profondi, risate, e una delle ragazze che immagina di dire allo stupratore: “Senti, so cosa provi. Dovresti proprio fare qualcosa per quei brufoli, se te ne liberi magari diventi anche carino, te lo giuro; così poi non dovrai andare in giro a fare cose come questa. Anche io una volta ce li avevo”. Lo consolerebbe, gli darebbe poi il numero della sua vecchia dermatologa, quella da cui andava al liceo.
Margaret Atwood non pensa che la letteratura possa cambiare il mondo, ma crede fermamente che debba essere libero di raccontarlo, nelle sue distorsioni, perversioni, comicità anche involontaria. Dopo che “Il racconto dell’ancella” ha ipnotizzato tutti gli appassionati di serie tv (e adesso su Tim Vision è cominciata la seconda stagione di “The Handmaid’s Tale”, ed è una buona notizia, mentre su Netflix c’è “L’altra Grace”, basata su un altro romanzo dallo stesso titolo), Margaret Atwood è diventata ancora di più la voce a cui affidarsi per comprendere il mondo femminile, per entrarci dentro anche in modo distopico e obliquo, per raccontare, appunto, le proprie fantasie di stupro oppure, come nell’ultimo racconto di questa raccolta (uscita in America nei primi anni Ottanta, adesso tradotta da Gaja Cenciarelli), lo sdoppiamento di una donna che partorisce, il cambiamento definitivo, l’abbandono dell’altra donna, quella che eravamo prima. “Le portano la bambina, solida, sostanziosa, compatta come una mela. Jeannie la esamina, è completa, e nei giorni che seguiranno anche lei verrà sopraffatta da altre parole, i capelli le si scuriranno lentamente, smetterà di essere ciò che era e sarà sostituita, poco a poco, da qualcun’altra”. Succede questo, non ci si può opporre al mistero, anche se si giura di rimanere sempre le stesse: “C’era veramente una consapevolezza speciale, un mistero, oppure il fatto di avere un bambino era davvero inspiegabile quanto avere un incidente in macchina o un orgasmo?”. Margaret Atwood non consola, non calma, non spiega, Margaret Atwood inquieta, muove, cambia il punto di vista, racconta sempre il lato più lontano dal primo superficiale strato di realtà. C’è una distopia anche quando la distopia non c’è, anche quando una studentessa viene seguita da un ragazzo basso e stralunato che vuole prendere il tè a casa sua, e la studentessa sente il fastidio della persecuzione e lo respinge, ma si tiene stretta quell’aura di mistero, quel sentirsi speciale, fino a che riceve una chiamata della polizia che le spiega che il ragazzo è stato rimpatriato dopo avere molestato una madre superiora di sessant’anni. Lei è delusa, sul punto di piangere, ma non smetterà di pensare a quel ragazzo basso e stralunato. Margaret Atwood racconta i paradossi, i pensieri indicibili, lo straniamento e il desiderio delle donne (soltanto in un racconto si mette nei panni di un uomo, un ragazzo che si rende conto di amare Louise dopo che Louise è ricoverata da settimane in una clinica psichiatrica, “disperata e pazza, privata di qualsiasi obiettivo o difesa. Una Louise sana, che potesse giudicarlo, non sarebbe mai stato in grado di gestirla”. Il racconto si intitola “Polarità”, e non è distopico ma, appunto, lo è).