Il ramo spezzato
Tutta quella tenerezza e l’amore che non sono bastati a Karen Green per salvare suo marito Foster Wallace
“Mi angoscia l’idea di averti spezzato le rotule quando ti ho tirato giù. Continuo a sentire quel rumore. Voliamo via dal mondo, no, come angeliche schegge di proiettile, ma allora perché quaggiù è tutto così pesante?”
Karen Green, “Il ramo spezzato” (Baldini+Castoldi)
Questo libro non riempie la cavità del dolore e dell’assenza, ma ne traccia i contorni. Nessuno può riempire un’assenza, nemmeno se trova le parole. Però un’assenza si può raccontare. Karen Green, moglie di David Foster Wallace, ha pubblicato cinque anni fa in America questo libro che adesso arriva da noi in edizione limitata e numerata, tradotto da Martina Testa per Baldini+Castoldi. E’ fatto di parole e collage, frammenti di carta e di pensieri, poesie: è una cosa, un oggetto, dentro cui si tocca il dolore in un modo così intimo da diventare brutale per chi legge. Ci si sente troppo vicini, ci si sente indiscreti. Vicini ai calzettoni di spugna e alle scarpe da tennis di un uomo che si è impiccato, di uno scrittore molto amato che non ce l’ha più fatta e che però ha ANCHE lasciato sola la donna che lo amava tanto e che si chiede se in quell’ultimo respiro ci sia stato spazio per i sentimenti. Troppo vicini ai cani di Foster Wallace, che aspettavano che lui prendesse il guinzaglio per la passeggiata. Karen Green tiene un diario del dolore e della rabbia e anche del tentativo di restare viva, delle conversazioni con i medici che le prescrivono pillole e le danno consigli. “Il dottore dice che se fossi stato così tra virgolette perfetto per me, probabilmente saresti ancora qui, non per offenderla eh”.
“Sconosciuti che si sentono liberi di scrivermi in un’email:
Nessuno la conosceva prima che suo marito si togliesse la vita.
Nessuno mi conosceva, nessuno mi conosceva. Mi sa che forse è vero”.
Karen Green non sa niente del sollievo, non lo trova, prende molti farmaci, tutti quelli che le danno, elenca i consigli degli altri: un cucciolo, la chiesa, elettrodomestici funzionanti. Le dicono: almeno adesso è. Almeno adesso è in pace, immagina chi legge. Ma lei non vuole in pace. “Lo voglio incazzato con i politici, a disagio, che cerca di manipolarmi per ottenere favori che gli farei comunque. Lo voglio che cerca gli occhiali, che tenta di non venire, che fa – parola orrenda – del diarismo, con un pezzetto di spinaci incastrato fra il canino e la gengiva, che mi rimprovera per la logorrea, o perché non sto zitta. Non lo voglio in pace”.
Sappiamo che Foster Wallace stava male da tempo, sappiamo che lottava, sappiamo che una volta ce l’aveva fatta ma quella volta no. Non sapevamo che i poliziotti avessero chiesto a Karen Green: “Perché l’ha tirato giù?”. Quanto è sconvolgente il dolore raccontato attraverso i dettagli, la forma del cuscino, e quell’abitudine che avevano di sollevarsi la maglietta e strofinarsi le pance. Si erano sposati nel 2004, lui si è ucciso nel 2008, lei si è ricoverata nella clinica in cui lui non voleva più tornare e ha dormito, ha pianto, ha odiato, ha preso pillole per l’empatia, ha sognato suo marito che le diceva: ti amo tantissimo, ma i farmaci le hanno impedito di provare gratitudine.
“L’anno scorso ho dipinto la nostra porta di rosso in onore del Giorno dell’Indipendenza, in onore di un ritorno a casa. Sono contento di essere vivo, hai detto, sono contento di essere a casa. Questa è un’immagine abbastanza facile da visualizzare: scalciare via le pigne dal vialetto tortuoso, il colore vivido delle macchie sulle mie scarpe, noi quando abbiamo aperto la porta”.
E’ dura ricordare le cose tenere con tenerezza, scrive sempre Karen, quando tutta quella tenerezza, quell’amore, quel soccorso sembra non essere bastato a trattenere il corpo amato, l’uomo amato. Lei conserva il suo deodorante, che usa con parsimonia. Ci si fa un baffo sotto il naso prima di infilarsi a letto. E’ straziante, è vicinissimo. “Nessuno ride alle mie battute forte come te”.