Provare il turbamento profondo della rabbia e del dolore, per poterli finalmente abbandonare
Quando si soffre si può diventare anche cattivi, ciechi al dolore e alle ragioni degli altri. Buoni motivi per leggere “Addio fantasmi” di Nadia Terranova
“Così, nell’insonnia che non finiva più, tra il mio sudore, il respiro regolare di Pietro e la paura di una naufragio attendevo l’alba che non voleva saperne di arrivare. Ma tutto arriva, prima o poi, a distruggere le persone che siamo state o crediamo di essere: alla prima luce del sole mi alzai in silenzio, lo baciai sulle labbra e me ne andai in stazione lasciandolo nel sonno”.
Nadia Terranova, “Addio fantasmi” (Einaudi Stile Libero)
Leggere questo libro significa aderire al turbamento, sentire il dolore come cosa viva, provare di nuovo o per la prima volta il terremoto interiore che sempre si accompagna a una esteriore compostezza e all’orgoglio di chi cerca, dentro il mondo, di nascondere la sua ferita ma allo stesso tempo chiede di essere riconosciuto, compreso, amato in quanto sopravvissuto. Ida, la giovane donna protagonista di questo secondo, spietato romanzo di Nadia Terranova, vive al centro esatto della sua sofferenza. Ma finora, cioè fino al tempo esposto in queste pagine intense, ha relegato i suoi fantasmi negli incubi di notte e nella stanca e grata intimità con suo marito, che non ha l’energia repressa di Ida, non ha quella carnalità pronta a esplodere, ma ha la capacità di darle riparo. “Hai vissuto cose terribili come fossero normali e forse viceversa, mi aveva detto una volta Pietro. Sapeva di me senza aver mai chiesto, nell’unico modo in cui bisogna sapere i fatti di chi amiamo, perché li sappiamo e basta”. Pietro offre riparo a Ida, ma a Ida quel riparo non può bastare, ha bisogno di spezzare la sua paralisi. Torna a casa, a Messina, senza gioia e con paura, torna per aiutare la madre a sgomberare la casa in cui è cresciuta e in cui è accaduta la “cosa terribile” che le ha bloccato l’esistenza, o che forse invece (se spostiamo il punto di vista) l’ha spinta a cambiare e a partire. Suo padre, sempre più ammalato di depressione, è uscito da quella casa di Messina ed è scomparso quando lei aveva tredici anni e stava per lasciare l’infanzia. Invece è stata l’infanzia a lasciare lei, e a tenerla però sempre legata ai ricordi. Con il fantasma del padre, la sua ossessione, sempre troppo vicino. Quando si soffre si può diventare anche cattivi, ciechi al dolore e alle ragioni degli altri. Il dolore offre un’identità e un egocentrismo che può essere scambiato per forza, che forse è davvero forza. Gli altri sono solo comparse, portatori di colpe o di spalle su cui piangere. Ida per lavoro racconta alla radio le storie degli altri, ma l’unica storia che le interessi davvero è la sua.
L’unico movimento di cui davvero le importi, tra Roma e lo stretto di Messina, è il suo movimento tra il presente e il passato, tra adesso e ieri, tra la scomparsa di suo padre e la vita che adesso spinge per ripartire. Non sa se sua madre adesso ha un’altra vita, se la sua giovinezza e la sua bellezza non sono andate perdute, ma ha ancora voglia di rinfacciarle molte cose. Forse è questo che significa sentirsi vivi: non smettere mai di fare a botte con chi amiamo, e anche con quelli che amiamo ma non avremo mai più qui davanti, a incassare i nostri pugni e i nostri desideri.
Questa storia resta incollata addosso con una tensione che cresce perché esplora l’abisso fra la memoria, il sentimento, l’abbandono e un presente vivissimo che pretende un riscatto. Non chiede una riconciliazione, ma qualcosa di più: una riparazione. Una rabbia da sciogliere. Un passato da abbandonare. Ci vuole coraggio a dire: addio.