Le nobili quarte di copertina, antipasti preparati personalmente da Manganelli
È l’ultimo testo che viene scritto, dopo il libro, e il primo che viene letto. È “un mondo a parte, ma attorno al quale ruota tutto il resto”
La macchina da scrivere nasce dai capricciosi amori di un cembalo estroso e di una mite mitragliatrice giocattolo. I suoi connotati più suasivi sono la tastiera e il macchinoso frastuono. Per codesto amore il cembalo ha deposto le sue arie, e la mitragliatrice i suoi infantili, innocui furori. Le lettere che leggete sui tasti sono quanto resta degli antichi melodrammi, delle favole pastorali in cui il cembalo, complice consenziente, venne coinvolto. Fu un amabile dono di nozze.
Giorgio Manganelli, “Improvvisi per macchina da scrivere” (1989, Leonardo editore, quarta di copertina)
La quarta di copertina è l’ultimo testo che viene scritto, dopo il libro, e il primo che viene letto. E’ “un mondo a parte, ma attorno al quale ruota tutto il resto”. Lo scrive Luigi Mascheroni nella postfazione a questo libro irresistibile, “Quarte di nobiltà” (Aragno) che porta sulla copertina il nome di Giorgio Manganelli: perché tutte le quarte di copertina ai suoi libri sono opera sua. E’ un’eccezione: di solito la quarta è opera dell’editore, perché l’autore è troppo coinvolto. E invece la quarta è così importante: “Deve incuriosire, ma non svelare completamente il testo. Deve invogliare il lettore all’acquisto, ma senza essere smaccatamente pubblicitaria. Deve persuadere, ma raccontando. O raccontare, persuadendo”. Naturalmente si sta parlando di libri di carta, rigirati tra le mani in libreria, e stiamo parlando di “un’arte breve”, forse un genere letterario a sé, scrive Mascheroni. In quest’arte della quarta di copertina, Giorgio Manganelli eccelleva, e voleva che fosse “etichetta, guida, mappa”.
Lietta Manganelli, unica figlia, nata da un matrimonio durato quattro mesi, che conobbe il padre quando aveva quattordici anni (“Scusi, lei è il professor Manganelli?”, “Sì”, “Allora io sono sua figlia”) ha curato questo volume con amore e ammirazione, descrivendo anche ogni volta le copertine delle prime edizioni, e utilizzando sempre e soltanto le parole, mai le immagini. Questo libro quindi va aggiunto agli altri di Manganelli, e usato appunto come una mappa, ma anche come una raccolta di racconti. “Quando uscirono i miei articoli sul viaggio in Cina, un lettore mi scrisse per chiedermi come si faceva ad andare in Cina; non gli risposi e ancora me ne cruccio, perché la mia risposta sarebbe stata come segue: in primo luogo, lei vada a Ferrara; poi compri un paio di bretelle; ah, mi raccomando, debbono essere bretelle blu. Poi chiacchieri con gli amici. Alla fine riparta e tenga il telefono pronto sul tavolo. Un giovedì il telefono squillerà e qualcuno le chiederà: ‘Domenica è libero? Andrebbe in Cina?’” (Cina e altri Orienti, Bompiani 1974). Manganelli aveva un carattere difficile e vari tic alimentari, e ruppe i rapporti con la casa editrice Einaudi perché Giulio Einaudi aveva l’abitudine, al ristorante, di allungare la forchetta nei piatti dei suoi autori (l’ha raccontato Lietta Manganelli in un altro libro, “Album fotografico di Giorgio Manganelli”, a cura di Ermanno Cavazzoni, edito da Quodlibet). Nelle sue bellissime quarte di copertina Manganelli racconta che “un tale, che vanta l’empio e infondato diritto di farsi passare per autore, gode della semplice e pulita operazione di sbranare i libri che vanno per il mondo sotto il suo nome, e di ricavarne uno stufato, un timballo, un brodetto, uno stracotto, uno spezzatino, un cibo gustoso e vendicativo”. E questi racconti sono l’antipasto.