Cosa ci insegna Virginia Woolf sull'ammalarsi
La grande scrittrice inglese e sua madre davano molta attenzione ai malati: la debolezza, la solitudine e l'affascinante vicinanza alla morte
Era lecito aspettarsi che interi romanzi fossero dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; composizioni liriche al mal di denti. Ma no, a parte alcune eccezioni – De Quincey fece un tentativo in tal senso nel suo Le confessioni di un mangiatore d’oppio e devono esserci un volume o due sulla malattia sparsi tra le pagine di Proust – la letteratura fa del proprio meglio per sostenere che il suo interesse è per la mente, che il corpo è una lastra di vetro liscio attraverso la quale l’anima appare semplice e chiara.
Virginia Woolf, “Ammalarsi”
(Elliot edizioni)
T. S. Eliot, amico di Virginia Woolf, le aveva commissionato nel 1925 un saggio sulla malattia. Virginia aveva quarantadue anni e si era da poco ripresa da uno dei suoi crolli nervosi: “C’è, confessiamolo (e la malattia è il gran confessionale), una schiettezza infantile nella malattia; diciamo cose, ci sfuggono verità, che la prudente rispettabilità della salute tiene segrete. Della compassione, ad esempio, possiamo fare a meno”. E adesso facciamo bene attenzione alla spietatezza, alla precisione di questa verità, pensando a quando il nostro corpo si ammala: “Quella illusione di un mondo plasmato in modo da fare eco ad ogni lamento, di esseri umani talmente legati da bisogni e timori comuni che lo strattone al polso di uno si ripercuote su quello dell’altro, dove per quanto strana sia la tua esperienza, altre persone l’hanno già avuta, dove per quanto lontano tu possa viaggiare con la mente, qualcuno ci è già stato – è tutta un’illusione. Non conosciamo le nostre anime, figuriamoci quelle degli altri. Gli esseri umani non percorrono l’intero tratto di strada tenendosi per mano”.
Nella malattia la simulazione di condivisione cessa. Nella malattia diventiamo disertori. Non fingiamo più l’appartenenza a una comunità. Guardiamo il cielo, ma da soli. Siamo più liberi anche dalla tirannia dell’intelligenza. Possiamo abbandonarci a fantasticherie e comportamenti che non ci permetteremmo mai di avere in salute. E, se ne abbiamo le forze, leggiamo finalmente quello che ci pare e all’ora che ci pare. Sembra un elogio dell’ammalarsi, come quando da bambini mettevamo il termometro sul termosifone per non andare a scuola, ed esultanti tornavamo sotto le coperte e avevamo tutta la giornata per fare cose mai fatte prima..
Ma ecco comparire Julia Stephen, madre di Virginia Woolf, morta dopo una breve malattia quando lei aveva tredici anni. Lavorò come infermiera volontaria e nel 1883 pubblicò “Appunti dall’infermeria”, quando Virginia era nata da un anno. Spiega come ci si comporta davanti a un malato, e lo fa con ironia e con talento e con senso pratico: via le briciole dal lenzuolo dell’ammalato, e il lenzuolo va messo ben dritto e teso, e naturalmente bisogna preparare un ottimo brodo di carne e per nessun motivo soffiare sulla minestra calda. La madre di Virginia Woolf era una grande esperta di malattia fisica e di bisogni del malato, Virginia era più a suo agio nella malattia mentale ed era capace di trasformarla in materia letteraria scintillante. Entrambe, madre e figlia, riconoscevano grande rispetto e interesse alla condizione di “disertore”: la debolezza, la solitudine, la fuga altrove, i pensieri strani, il letto come casa, ma soprattutto, io credo, quella pericolosa e affascinante vicinanza alla morte, e quindi alla fine di tutto.