La strega Shirley Jackson
La quieta accettazione dei brownie il pomeriggio e delle case che si animano
Cara miss Jackson, sono un marinaio di stanza su una portaerei nel Pacifico meridionale. Lei è la mia scrittrice preferita e le sarei grato se volesse rispondere alle seguenti domande: 1) E’ sposata? 2) Ha figli? 3) Potrebbe mandarmi una sua foto? Spero che vorrà rispondermi, perché amo la corrispondenza letteraria. Cordialmente.
Lettera a Shirley Jackson, 1959
L’unica risposta possibile era: “Caro marinaio, ho quarantadue anni, e il mio primogenito è in età di leva. Tuttavia le mando una foto di mia figlia, che ha sedici anni e anche lei è appassionata di corrispondenza letteraria. Cordiali saluti”. Più leggo Shirley Jackson più l’ammiro, e penso a quando si presentò all’ospedale per partorire il terzo dei suoi quattro figli.
All’accettazione le chiesero che mestiere facesse, per compilare la scheda. “Scrittrice”, rispose Shirley Jackson. “Metterò casalinga”, disse l’impiegato. E nella postfazione a “Paranoia” (Adelphi), scritta da due dei suoi figli, che un giorno molti anni dopo la sua morte si sono ritrovati davanti a casa una scatola senza mittente piena dei manoscritti della madre, carta gialla e carattere della sua vecchia macchina da scrivere Royal (c’è qualcosa di stregonesco, e Shirley Jackson si definiva anche “una strega”, era appassionata di magia, faceva strani riti e credeva ai fantasmi), i figli rivelano che la madre per la maggior parte del tempo della sua vita ha scritto, scritto e ancora scritto. “Abbiamo un vivo ricordo di quando, al ritorno da scuola, trovavamo nostra madre che scriveva al piano di sopra o su un tavolino pieghevole in sala da pranzo, oppure prendeva appunti seduta sullo sgabello della cucina mentre cuoceva i brownie. Per anni i nostri genitori hanno lavorato fianco a fianco nel loro studio, seduti a un metro di distanza, mentre il loro furioso ticchettio risuonava in tutta la casa. Per noi era facile ignorarlo, ma gli amici che venivano a trovarci rimanevano spesso sbalorditi dal fuoco di fila che usciva da dietro la porta chiusa”. Il marito di Shirley Jackson, critico letterario ammirava la sua scrittura, ma non le fu sempre di sostegno, lei gli scrisse una volta: “Avevi detto che con te non mi sarei mai sentita sola, questa è stata forse la più grande bugia che ho sentito da te”.
Era lui quello importante, quello serio, lei era conosciuta soprattutto per le brillanti cronache di vita domestica che uscivano sulle riviste. E per quel racconto, “La lotteria”, che sconvolse i lettori del New Yorker e che Shirley Jackson mentre andava a fare la spesa con la figlia in passeggino, e mentre scendeva verso i negozi pensava ai suoi odiosi vicini di casa. Si raccontava le storie dentro la testa, anche sugli oggetti inanimati di casa (il tostapane, le forchette, le tende), poi metteva la figlia più piccola nel box e scriveva. “Una delle cose più belle del lavoro di scrittrice è che nulla va mai sprecato”. Le frasi dei bambini, le loro paure, la foto di un cadavere in decomposizione, una forchetta, l’aria arcigna di una vicina di casa, una padella da lavare, la recensione di un libro. E’ come se Shirley Jackson avesse scritto il romanzo segreto delle donne americane della sua èra: all’apparenza è tutto lindo e tranquillo, con la quieta accettazione dei brownie il pomeriggio e dei bicchieri nuovi da mettere in tavola, ma dentro c’è un tornado in cui gli oggetti prendono vita, il criceto forse è morto, le case sono infestate dai fantasmi, il sangue scorre, l’ambizione divora e una scrittrice vede tutto attraverso una sottile nebbiolina di parole. “Il novanta per cento della mia vita l’ho vissuta dentro la mia testa”, ha scritto di sé Shirley Jackson, e se suo figlio Lawrence non avesse trovato quella scatola davanti alla porta di casa forse noi avremmo potuto soltanto immaginarlo. Ma lei lo diceva sempre, e se ne infischiava delle reazioni degli altri: sono una strega.