La vita di due donne, la lacerante tristezza e la luminosa possibilità dell'esistenza
Valeria Parrella prende il lettore in un punto e lo trasporta in un altro punto, gli offre il mondo dall’alto, e in centoventi pagine tese e illuminate gli cambia lo sguardo
I ricordi restano sempre dove li abbiamo lasciati: noi ci alziamo, andiamo, richiamati a tavola dalle madri, e i ricordi restano sugli scalini.
Almarina non aveva ricordi così ed era stata vestita di carta, ma possedeva la luce del futuro negli occhi: e il futuro comincia adesso.
Valeria Parrella, “Almarina” (Einaudi)
Valeria Parrella scrive, e con la scrittura arriva in cima alle montagne, guarda il mondo dall’alto: dall’alto il mondo è così piccolo che puoi tenerlo in una mano. Lei lo tiene e lo racconta da un punto minuscolo, la guardiola del carcere di Nisida, la piccola isola all’estremità della collina di Posillipo: quando la sbarra si richiude alle spalle di una donna che insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Valeria Parrella, da quella guardiola, apre all’immensità. Della vita, del dolore, dell’ingiustizia e della speranza negli esseri umani. E’ un libro fatto di carne e di cielo, questo, trascina dentro dalla prima pagina e non ci si può staccare più, nemmeno quando finisce. Trascina per intimità, per precisione, e poi si impone dentro perché attraverso il racconto della vita di due donne, Almarina, ragazza romena di sedici anni, detenuta, e Elisabetta Maiorano, insegnante di cinquant’anni, vedova, Valeria Parrella esplora la lacerante tristezza e la luminosa possibilità dell’esistenza. Attraversare l’inferno, sopravvivere, ricominciare, agire, sperare. Sentire ancora di avere un corpo, anche. Almarina è stata picchiata e stuprata da suo padre, in Romania, Elisabetta ha visto suo marito morto sul tavolo dell’obitorio, a Napoli. Tutto quello che sente Elisabetta Maiorano, mentre entra nel carcere di Nisida, mentre guida per le strade della città addormentata, mentre guarda il comandante e guarda il mare e guarda i detenuti giocare a pallavolo, e guarda Almarina che si addormenta sul banco in classe, ogni suo pensiero segreto noi lo conosciamo. Ci avviciniamo, entriamo nel carcere con lei, e come lei ci sentiamo finalmente liberi. “Mi danno una chiave che corrisponde a un piccolo armadietto. Della mia borsa faccio un sacco, l’ammacco, la schiaccio, ce la faccio entrare, do la mandata e vado. Dentro ci lascio la solitudine della figlia unica, l’orecchio dolente di una malattia esantematica, l’ombra che mi terrorizzava al pomeriggio, proiettata sul muro della stanzetta. Quella risposta inopportuna per cui mia madre non mi parlò per giorni. Tenersi le mani addosso quando non le vuoi davvero, volere di più le mani addosso e non saperle chiedere. Il primo attacco di panico una notte in albergo a Parigi, dopo la maturità. E la vacanza con un uomo più adulto di me, nella quale piansi tutti i giorni”. Elisabetta Maiorano porta con sé a Nisida il proprio passato, la vita quotidiana, la solitudine la notte, le gocce e per dormire, anche l’infanzia, e stipa tutto con la borsa dentro l’armadietto del carcere, ora entra libera in quel mondo chiuso, che non è soltanto di Almarina, è il mondo dei detenuti giovani che un giorno, molto presto, usciranno da lì, abbandoneranno l’isola e dovranno farcela, o non farcela, nel mondo senza la guardiola e la sbarra che scende.
Questo romanzo racconta e affonda nella responsabilità, nell’autorità, nella colpa, nell’ingiustizia e nella speranza, attraverso le donne e gli uomini che Valeria Parrella fa muovere sull’isola, anche attraverso il direttore del carcere che dice, a Elisabetta Maiorano preoccupata per il futuro di Almarina: “Le posso dire perché si è dispiaciuta? Posso provarci? Ci penso da vent’anni. Allora. Io credo che lei si sia dispiaciuta perché se c’è un minore colpevole c’è un adulto colpevole. E non basta uscire ed entrare per assumersi la responsabilità della colpa”. Almarina è una minore colpevole, a cui il padre ha rotto le ossa, e ha un fratello di sei anni che ha portato in Italia, vorrebbe rivederlo ma non può. Elisabetta Maiorano è un adulto ferito, che sente la responsabilità, che conosce il punto esatto in cui la vita sembra intollerabile, e il suo cammino tra la città e la prigione è un vero cammino, in cui si cambia e si agisce, si decide, ci si muove. E il romanzo di Valeria Parrella compie questo percorso miracoloso: prende il lettore in un punto e lo trasporta in un altro punto, gli offre il mondo dall’alto, e in centoventi pagine tese e illuminate gli cambia lo sguardo.