Rachel Cusk e la solitudine di tutti, mostrata attraverso quello che ci salva: l'ascolto
Ogni storia contiene macerie. In “Transiti” si interrogano le possibilità del romanzo
Negli ultimi tempi avevo riflettuto sul male, ho continuato, e cominciavo a rendermi conto che non era frutto della volontà ma del suo opposto, la resa. Rappresentava il disimpegno, la capitolazione dell’autodisciplina di fronte al desiderio. Era, in un certo senso, uno stato passionale. Resistere al male si può, ma nel farlo si è soli. Uno resiste o cede come singolo individuo. Nel tentativo si rischia tutto: può anche darsi, ho detto, che si possa estirpare il male solo a prezzo del completo sacrificio di sé. Ma purtroppo non c’è nulla che dia altrettanta soddisfazione ai nostri nemici.
Rachel Cusk “Transiti”
(Einaudi Stile Libero, 195 pp., 17 euro)
Questa riflessione avviene durante il primo appuntamento con un uomo, che un anno dopo avere conosciuto Faye è riuscito a ottenere il suo numero di telefono e a invitarla a cena. Faye è arrivata a questa cena in metropolitana, dopo una lezione di due ore, stanca e infreddolita perché sta ristrutturando il suo nuovo, fatiscente appartamento e i termosifoni sono spenti. Non si è nemmeno tolta il cappotto. Faye è una scrittrice e un’insegnante, è in crisi, ha divorziato da poco, è tornata a vivere a Londra con i suoi due figli, i vicini di casa le stanno facendo la guerra a causa dei lavori di ristrutturazione, la vicina le dice la sera, quando sa che è Faye è tornata a casa: bastarda di merda. Faye è sola, ed è una grande ascoltatrice di solitudini altrui. Chi ha letto “Resoconto” conosce già la sua voce e probabilmente è stato già catturato dalle spire avvolgenti di questa continua conversazione, concreta e insieme filosofica, minuta e universale. “Transiti”, il secondo volume della trilogia, è il romanzo sofisticato, malinconico, e quieto del caos assurdo delle vite umane: Faye è in ascolto, anzi forse è in cerca, per consolazione, della solitudine di tutti (parrucchieri, agenti immobiliari, operai, ex fidanzati, amiche), in osservazione delle mani tremanti che cercano il telefono dentro la borsa, Faye offre il suo sguardo attento mentre Rachel Cusk offre la sua scrittura a cerchi concentrici.
Una donna che si affida a un’astrologa online, attraverso una mail spazzatura che le dice: so che stai andando in pezzi, ho notizie importanti per te. La sua amica che scoppia a piangere a letto con un uomo quasi sconosciuto, e lui le prepara un tè, una fetta biscottata e le consiglia lo psicanalista. Pavel, il muratore polacco che si tiene tutto dentro. L’ex fidanzato che non ha mai lasciato la vecchia casa in cui aveva vissuto con Faye, ma ha abbattuto con furia tutti i muri divisori. Ogni storia contiene macerie. Di polvere, di cose distrutte che vanno attraversate. Amanda vive nelle macerie del suo appartamento da due anni perché nel frattempo ha iniziato una storia con chi le ristruttura la casa, ma da come cammina, da come si sforza di non piangere, quelle macerie fanno profondamente parte della sua vita. E mentre queste vite scorrono e vengono raccontate a ogni incontro, a ogni cena, ma non con la mondanità delle conversazioni a tempo perso, invece con la precisa volontà di denudarsi e di andare al fondo di ogni goffaggine, rabbia, ricordo o speranza, Rachel Cusk interroga le possibilità del romanzo: come ha dimostrato Philip Roth, attraverso i personaggi si può tentare di definire il potere, il male, la differenza tra uomo e donna, il fallimento. Con la calma coraggiosa di una donna che cerca di ritrovare un equilibrio, e sembra che questo equilibrio possa arrivare solo attraverso l’ascolto, la disposizione verso l’altro, e a un certo punto prova un’immensa sensazione di sollievo, “come se fossi la passeggera di un’auto che ha finalmente superato una strada a stretti tornanti”, a contatto con la mano solida e pesante di un uomo che le ha appena detto: mi sembra che tu riesca a far fronte alle cose.