Le parole dal carcere
La profondità della disperazione e della rabbia che scuote chi legge
Ho visto una donna ucraina molto giovane. Era incinta e mancava poco al parto. La facevano rimanere sempre in isolamento perché era ingestibile: le piaceva menare, soprattutto gli assistenti. Non era neanche possibile contenerla: oltre a essere incinta era una bestia, alta ed enorme. Una faccia, dei piedi e delle mani stratosferiche. Faceva sempre ciò che voleva e durante l’ora d’aria si lavava il suo enorme pancione, tutta nuda, sotto la doccia della sezione. Ero commossa da quella visione, si sentiva libera e riusciva a far sentire così anche noi. Solo nel guardare una donna che si faceva la doccia.
Patrizia Durantini in “Mala follia, racconti dal carcere”
(Giulio Perrone Editore)
Come ha scritto Edoardo Albinati nell’introduzione a questi sei racconti sul carcere, scritti da narratori che il carcere lo conoscono come si conosce la propria casa, “è spesso la follia a spingere la gente dentro una galera oppure è la galera a produrre come un suo effetto inevitabile, quasi calcolato in anticipo, la follia. La massima staticità e la massima agitazione finiscono per convergere in un unico istante e in uno spazio definito, quello della cella”. La massima staticità e la massima agitazione convergono anche nel senso di smarrimento, una volta fuori di prigione. La paura di non farcela. Il desiderio di tornare dentro. “Ogni tanto ne veniva una nuova. Una, perfino, rubò un tablet e si consegnò. Diceva che per un po’ non voleva stare fuori. Ci sono ragazze che arrivano vicino al suicidio. Altre invece ci arrivano e basta. Si tagliano e prendono a capocciate i blindi”. O staccano agli agenti le dita delle mani, quando arrivi all’esasperazione ed esce fuori il mostro che è in te, scrive Patrizia Durantini, una donna di questi racconti carcerari, insieme a Edmond, Michele, Salvatore, Sebastiano, Stefano, che sono veri scrittori, oltre che veri carcerati. Antonella Bolelli Ferrera ha curato questa antologia facendo viaggiare le storie da sole. Nessuno scrittore riconosciuto come tale ha affiancato questi sei scrittori nel loro viaggio importante, terribile e serio dentro la prigione e dentro di sé. “Mi ritrovo solo come un cane, senza un lavoro fisso e una buona ragione per andare avanti. Tutti quelli che conoscevo non fanno più parte del mio mondo, anche se probabilmente sono io che non faccio più parte del loro mondo. O di qualsiasi mondo. Sono trascorsi due anni dal mio addio alla galera eppure mi sono portato le sbarre della cella appresso e posso sentire ancora il loro peso sulla schiena”, scrive Michele Maggio in “Comma 22”, che è il diario della follia e della verità. Dell’isolamento, anche, e della comunità che è necessario costruirsi per non lasciarsi uccidere dalla solitudine. Sebastiano Prino racconta gli anni di punizioni, di monologhi alle sbarre, di psicofarmaci e di ribellioni. “Le guardie che mi aprirono il cancello indossavano guanti di lattice per perquisirmi, ma l’odore che emanavo dal corpo e dagli indumenti che mi coprivano li fece desistere dal toccarmi. Con guardie davanti e guardie dietro, varcai la porta di quella corte di giustizia che da subito mi apparve molto minore di come l’avevo immaginata (…) Le guardie mi lasciarono il passo indicandomi una sedia posta al di qua della scrivania, ma invece di prendere posto infilai lentamente le mani in tasca e un attimo dopo, avvolti dal foglio della convocazione tagliato a metà, scagliai verso quegli uomini seduti e su quelli nascosti dietro di loro, il contenuto del mio bugliolo. Poi mentre venivo buttato per terra gridai la mia grandezza”. C’è un valore letterario che va oltre la testimonianza, perché quando si scende nella profondità della disperazione e della rabbia riuscendo a trovare le parole, si compie un’opera importante e viva, che scuote chi legge dal torpore, lo sveglia con un pugno in testa, gli dice: guarda, la vita è questa, guarda, lui è come te.