Adam Gopnik e le uniche due donne della sua vita. Manhattan e Marta
L'ultimo libro dello scrittore americano è la conferma che si può scrivere bene anche raccontando la corsa alla felicità
Avevo un vero stipendio a tempo pieno – meno di quanto oggi occorrerebbe, a New York, per mandare un figlio alla scuola privata, mensa esclusa – ma a quei tempi era sufficiente per restare in città. Potevamo perfino pensare di trovare un nuovo appartamento. Il giorno che ebbi la promozione, mentre tornavo a casa, cominciò a nevicare. Incrociai Martha e andammo fuori a cena in uno dei locali tedeschi. La neve cadeva sempre più fitta, e noi eravamo tutti soli. Io presi un gulash, Marta dell’oca. Ancora una volta, ero più felice di quanto fossi mai stato. Da allora, non sono più stato felice di così. Non sarei più stato così felice.
Adam Gopnik, “Io, lei, Manhattan”
(Guanda)
Adam Gopnik sa che scrivere con toni affettuosi, per non dire amorevoli, della propria moglie, la donna che ti sta accanto da quarant’anni, viene considerato di pessimo gusto. Peggio, vanaglorioso, insincero, sospetto, interessato. Le famiglie felici, aiuto, com’è possibile, non è letteratura, non è un racconto, non è vero. E la foto di copertina, poi: sono proprio loro, Adam e Martha, e lei si protende a baciarlo di sorpresa, il giorno del loro matrimonio, e lei così piena di grazia, e lui così fortunato, e questo libro di nuovo così pieno di grazia che è “soltanto per Martha, la prima, l’ultima, mio amore, mia vita, sempre, in ogni istante, sveglia oppure (spessissimo in questo libro) addormentata”. Lui dice: che posso farci? Che posso farci se è andata proprio così, e lei a diciott’anni era la ragazza più graziosa che io avessi mai visto, e poi Manhattan (l’altra donna a cui è offerto questo libro) il luogo dell’amore, dell’ambizione, della giovinezza, della felicità conquistata negli anni Ottanta e mai perduta. Allora leggere “Io, lei, Manhattan”, per chi ha letto e amato anche gli altri libri di Gopnik (“Da Parigi alla luna”, “L’invenzione dell’inverno”, “Una casa a New York”) e le cose che scrive da trent’anni sul New Yorker, per chi considera questo punto di vista attento alle parole, all’ironia, ai dettagli, al cibo e al freddo, una voce fondamentale, questo libro è la conferma che si può scrivere bene anche raccontando la corsa alla felicità.
Per tutti gli altri, è una scoperta, un godimento, una meraviglia. La vita in un seminterrato di nove metri quadrati, con lui che ama la carne al sangue e lei la ama ben cotta, ma non c’è lo spazio fisico per litigare, per guardarsi con cattiveria. I calzoni del completo per il matrimonio ritirati dalla tintoria e persi per strada dentro un sacchetto senza fondo, “e io sapevo che avrei passato il resto della mia vita a New York alla ricerca dei miei pantaloni perduti”. I ratti enormi, uno per ogni abitante di New York, e la guerra per sconfiggerli. Gli scarafaggi. Gli incontri fondamentali. L’idea che in fondo bastassero un paio di scarpe da ginnastica e un walkman per conquistare la città. L’amore per Central Park. L’invenzione della scrittura, scoprire che è quello che sai fare nella vita, che è quello che farai per sempre.
Che cosa rende questo libro speciale, divertente e non compiaciuto? Il punto di vista dello straniero. Lo stupore di chi arriva da fuori e non può avere nessun cinismo, nessun senso dell’aristocrazia, nessuna noia, nessuna catena. Tutto da zero, anche l’incontro con la neve a New York. Tutto entusiasmante, anche occuparsi di creme in un giornale di moda maschile e mettere insieme due parole, “chiaroscuro chic”, per definire una camicia di lino, e con quelle due parole sollevare il mondo, anzi la città. E nessuna vergogna nel coltivare l’ambizione: “Il desiderio che provavo per lei era il motore di tutte le mie ambizioni. In effetti l’ansia, l’ambizione e il desiderio erano tutti mescolati in una sorta di combustibile della vita. Volevo che continuasse a tornare a casa. Volevo far bene per continuare a interessarle. Volevo portarle a casa gli scalpi dei nemici sconfitti”. Lei, naturalmente, è Martha.