Lettere rubate
Un uovo in tre, e il male raccontato ai bambini. Da Lia Levi, che era bambina e basta
Abituarsi ad avere un nome falso è un po’ difficile. All’inizio devi stare molto attento perché, visto che non sei abituato, se ti chiamano nemmeno ti volti. Per fortuna, il nostro nome falso assomiglia molto a quello vero. Quello vero è Levi, quello falso è Lenti.
Lia Levi, “Una bambina e basta, raccontata agli altri bambini e basta”
HarperCollins
Quando ho letto per la prima volta il diario di Anna Frank avevo otto anni, e la mia vita è cambiata. E’ stato il primo ingresso nel dolore, nell’ingiustizia e nella disumanità, molto più che con le favole dei Fratello Grimm, in cui mi consolavo dell’orrore pensando che non era vero: non c’erano orchi, non c’erano streghe, lupi cattivi e madri assassine Avevo torto naturalmente, e leggendo il diario di Anna cercavo di convincermi che si sarebbe salvata. Ero una bambina, volevo una favola con un lieto fine. Invece Anna e sua sorella sono morte a Bergen Belsen, scheletriche e divorate dal tifo. Anna aveva quindici anni e parlava del libro che voleva scrivere. La caduta dal tavolo dove era sdraiata, e il giorno dopo è morta anche Anna, che era già in coma. Non è vero che ai bambini bisogna tenere nascosto il male.
Lia Levi, in “Una bambina e basta”, uscito per la prima volta nel 1994 (vinse il premio Elsa Morante) ha raccontato quel che è accaduto a lei, che aveva appena finito la prima elementare a Torino, e che a causa delle leggi razziali è dovuta andare a Milano, e poi a Roma, e poi dare tutto l’oro della famiglia, e poi nascondersi in campagna, in un collegio di suore, con un altro cognome, senza i suoi genitori che si nascondevano altrove. Ma questa è una storia a lieto fine, perché Lia e le sue sorelle si sono salvate, e anche i genitori, grazie all’aiuto di chi, come ripeteva sempre Elie Wiesel, non è rimasto “apatico mentre viene versato il sangue del tuo vicino”. I genitori arrivavano al convento con le figlie e chiedevano alle suore: per favore, nascondetele voi. E le suore dicevano sempre sì, e aggiungevano un letto, e presto i letti erano così vicini l’uno all’altro che ci si poteva camminare sopra come su un pavimento, e ci si divideva un uovo in tre. Una volta arrivò una bambina di tre anni, piangeva disperata, ma non c’era posto per la madre nella pensione, e la madre ha detto: “Mi basta che prendiate mia figlia”. E le suore hanno preso la bambina, e la madre è andata via, chissà dove. E Lia, vedendo questa bambina piangere anche di notte, e cercare sua madre, di nascosto l’ha presa e l’ha portata nel suo letto. Aveva dodici anni. Così quando, alla fine della guerra, Lia è tornata a essere “una bambina e basta”, non una bambina ebrea con un nome falso, è difficile credere che fosse davvero ancora soltanto una bambina.
Ci sono le illustrazioni di Zsosia Dzierzawska in questo adattamento per bambini del libro di Lia Levi, che nella versione originale contiene anche la minaccia della perdita di identità, il desiderio impulsivo di una ragazzina spaesata di abbracciare la religione cattolica, attratta dal “dio buono dei cristiani”, attratta dalla possibilità di essere come gli altri. Ma i bambini che leggeranno questa storia capiranno benissimo, senza bisogno di tante spiegazioni, che erano tutti bambini e basta.