Lo sguardo finemente complesso di Ngozi Adichie
Prima di gettarsi nel mondo si possiede sempre un’unica storia. E anche un’identità
Di recente ho tenuto una conferenza in un’università dove uno studente mi ha detto che era una vera vergogna che gli uomini nigeriani fossero violenti come il personaggio del padre nel mio romanzo. Io gli ho risposto che avevo appena letto American Psycho e che era una vergogna che i giovani americani fossero dei serial killer.
Chimamanda Ngozi Adichie, “Il pericolo di un’unica storia” (Einaudi)
The danger of a single story è un Ted talk tenuto da Chimamanda Ngozi Adichie nel 2009, quando aveva trentadue anni e non aveva ancora pubblicato Americanah, che è il suo romanzo più importante, più compiuto, in cui le storie sono molte e stanno insieme in un equilibrio di storie: che offrono uno sguardo finalmente complesso e moderno sulla vita afroamericana negli Stati Uniti, sulla nostalgia per la Nigeria, su tutti gli stereotipi dei rapporti fra mondi diversi (“come fate in Africa a vivere con meno di un dollaro al giorno?”), e anche sull’ipocrisia che viene messa in atto da entrambe le parti, e su come poi le cose cambiano, cambia il gusto estetico e adesso la ragazza di Lagos torna a Lagos e trova orribili le case color salmone dei ricchi generali nigeriani, con angeli di alabastro a guardia del cancello, ma fino a pochi anni prima quelle case le sembravano bellissime (“ormai sono diventata quel genere di persona che apprezza le travi a vista”). Prima di gettarsi nel mondo si possiede sempre un’unica storia, e anche un’identità. Per moltiplicare le storie, per rinunciare a quell’unico sguardo, bisogna perdere l’identità e poi ricostruirla.
Chimamanda Ngozi Adichie leggeva da bambina libri inglesi e americani per bambini, lettrice e scrittrice precoce, e scriveva senza di brughiere e di birra allo zenzero e di neve fresca e di ragazze bionde con gli occhi azzurri, perché, nella letteratura, era quella la sua unica storia. I suoi personaggi, da bambina, parlavano a lungo del tempo e della fortuna che fosse spuntato il sole. “Noi mangiavamo manghi e non parlavamo mai del tempo, perché non ce n’era bisogno”.
A diciannove anni, Chimamanda ha lasciato la Nigeria per fare l’università negli Stati Uniti. La sua compagna di stanza, americana, provava pietà per lei ancora prima di conoscerla. “La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa. Un’unica storia fatta di catastrofi. In questa unica storia, non vi era alcuna possibilità che gli africani fossero in alcun modo simili a lei. Nessuna possibilità per sentimenti più complessi della pietà, nessuna possibilità di un rapporto alla pari tra esseri umani”.
Avere un’unica storia è molto pericoloso per gli esseri umani, e disastroso per uno scrittore. Avere un’unica storia significa accontentarsi di alcune cose, non necessariamente false, ma incomplete: ci si può accontentare della vista dalla finestra del bagno di casa e ritenere che il mondo finisca lì, che non ci sia altro? Le catastrofi africane, la criminalità messicana, i bambini poveri, la musica tribale. Del resto anche le parrucchiere africane negli Stati Uniti misurano l’ascesa sociale di una ragazza africana dal suo accento americano.
Abbandonarsi a un’unica storia è anche molto rassicurante, perché è un esercizio di semplificazione, e mette al riparo da ricerche, pensieri, domande. Però è anche soffocante, e soffocare va bene, perché altrimenti non si troverebbe mai il coraggio di cercare un’altra storia, o di andare via. Da bambina ero convinta che l’attività lavorativa principale, anzi forse l’unica, del Giappone, fossero i cartoni animati. Non capivo perché i miei genitori sgranassero gli occhi mentre dicevo che il sostentamento dell’intero Giappone erano i cartoni animati, era così evidente, avevo così ragione. Era la mia unica storia.