Il duende spiegato da Garcìa Lorca
I toreri, i ballerini di flamenco e i pittori, i musicisti, i poeti. E' qualcosa che non tutti hanno
Suoni neri, disse l’uomo popolare di Spagna, e si trovò d’accordo con Goethe, che offre una definizione del duende quando parla di Paganini e dice: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega”. Ebbene, il duende è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare.
Federico Garcìa Lorca, “Gioco e teoria del duende” (Adelphi)
Che cos’è il duende? E chi lo possiede? Federico Garcìa Lorca, poeta, fucilato nel 1936 dalla polizia franchista, lesse queste pagine pochi anni prima, nel 1933, riscuotendo grande successo. Cercava di afferrare, di definire, di raccontare quel non so che posseduto dagli artisti (non tutti), quella forza misteriosa che emana lo spirito della Terra e si può sentire ma non si riesce a spiegare, quella cosa che ogni artista vorrebbe per sé, e che i toreri a volte mostrano nei loro movimenti, ma anche i pittori, i musicisti, i poeti. Non è una musa, non è un angelo, ma è pur sempre qualcosa che si impossessa, ma che sta già dentro, nelle più recondite stanze del sangue.
“Billie Holiday e Tennessee Williams ce l’avevano. Ella Fitzgerald quasi, ma non proprio. E Miles Davis forse non aveva altro”. Marlon Brando di certo ce l’aveva. Anche Janis Joplin, se vogliamo giocare a scovare il duende. Apollinaire è stato divorato dal duende.
“Il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di capacità ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto”. Garcìa Lorca parla di fluido inafferrabile, che arriva direttamente al pubblico, qualcosa di demoniaco che possiede il senso della morte, qualcosa con cui lottare.
“Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile, che fa sì che Goya, maestro dei grigi, degli argenti e dei rosa della miglior pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni con orribili neri bitume”. L’arrivo del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di tutte le forme. Ai vecchi schemi dà sensazioni di freschezza completamente nuove, con una qualità di cosa appena creata, di miracolo, che arriva a generare un entusiasmo quasi religioso. E’ un folletto, una voce nuova, un vento mentale: i toreri, i ballerini di flamenco, e chi altro? Ognuno può affibbiare il duende a chi preferisce, ma tenendo conto che non si tratta di pensosità, né di dedizione, né di intelligenza, e nemmeno di studio. E’ qualcosa con cui si nasce, e che poi cresce, che si nutre di conflitto. Brahms non lo possedeva, Bach sì, Nietzsche, Cézanne, Rimbaud. E chissà quanti altri, sconosciuti o famosissimi, di certo mai soddisfatti, mai paghi, mai quieti, lottano ogni giorno con il proprio duende. In poco più di cinquanta pagine potrete capire di che parliamo quando parliamo di qualcosa di inspiegabile, e di irresistibile. Grazie al poeta, che sa trovare le parole anche per quel che parole non ha.