Madre sola + vita da cani
Il fiato sospeso sul nuovo romanzo di Carole Fives
Dovrebbe tornare subito a casa. Piazzare il bambino davanti a un cartone animato fino all’ora di cena. Ma il frigo è vuoto, deve fare di nuovo un salto al supermercato. Comprare patate e formaggio, anche il latte. Yogurt. Aggirare la corsia dei dolci. E alla cassa, distrarlo. Evitare che faccia una scenata come l’ultima volta. Che sventoli una confezione di porcherie, urlando. Che si rotoli per terra. Di uscire dal negozio in un bagno di sudore, rossa, confusa, sommersa dai fischi immaginari dei clienti. Un altro “bambino re”, un’altra madre nubile che non sa gestire niente, una povera scema.
Carol Fives, “Fino all’alba” (Einaudi)
Ho letto questo libro senza mai staccarmi, senza mai alzare gli occhi, senza mai dire: ci ripenso tra un po’. Semplicemente, non potevo smettere. Non mi importa di chi dice che un libro non va divorato perché non è un passatempo, e che bisogna lasciarlo depositare, rifletterci. Mi prendo la libertà di leggere come voglio i libri che voglio, senza nessuna regola, e dentro questo libro sono precipitata dalla prima pagina all’ultima. Dovevo capire che cosa stava per succedere, prima che succedesse. Volevo sapere tutto della vita di questa madre chiusa nell’appartamento con il suo bambino, una giovane donna che alle tre e mezza del mattino digita sul motore di ricerca: MADRE SOLA + VITA DA CANI. Leggere di lei è stato come camminare sull’orlo di un precipizio, con il desiderio di salvarsi, buttarsi, bruciare tutto, urlare. Tutto insieme.
Lei legge i forum sulla vita dei genitori single, legge gli insulti alle madri non abbastanza devote (“stronza, zoccola, madre indegna”), e intanto risponde al richiamo di suo figlio che si lamenta, che la vuole “vicino vicino”, e cerca di chiudere di notte le sue consegne da freelance in disgrazia. Ma soprattutto sogna la libertà, sogna di essere qualcos’altro, per un poco, qualcos’altro che non sia una madre single con un bambino attaccato alle ginocchia che le urla: voglio il papà. Ci sono notti, quando suo figlio dorme un sonno profondo, in cui esce di casa. Attenta a non far scricchiolare il parquet, si chiude la porta alle spalle. Mette la sveglia nel cellulare per non sforare il tempo che si concede. Scappa? Sì, scappa. Ha bisogno di vedere la vita per la strada, perché adesso la sua unica vita è il suo appartamento troppo costoso (il padre del bambino una volta divideva l’affitto con lei, ora non più) e il parco è un posto dove morire lentamente. E al parco la guardano male da quando il bambino è caduto dalla giostrina mentre lei era al telefono con l’art director dell’agenzia pubblicitaria che le diceva: sei in ritardo! E alla riunione di gennaio devi assolutamente esserci, prendi una baby sitter, fai come tutti, organizzati!
“I weekend, i giorni festivi erano i peggiori, quando lei aspettava spasmodicamente che il padre di rifacesse vivo. A volte gli mandava messaggi nel cuore della notte: Ci pensi al bambino? Vuoi vedere tuo figlio?”. Ma il padre è un fantasma, il padre è un paio di ciabatte infradito dimenticate nel bagno, e quello che punge e chiama in questo romanzo è la spietatezza dello sguardo degli altri. La fretta nel giudicare, nel respingere, nell’inquadrare. La burocrazia, l’asilo nido, l’ufficiale giudiziario, perfino il nonno, i vicini di casa, la portinaia, le donne in chat, i passanti, la cassiera del supermercato, l’avvocato divorzista. Ognuno di loro ha qualcosa di ostile, oppure esprime una tolleranza infastidita. E’ così che si sente la madre che di notte compie l’indicibile: tollerata a fatica. Ma la spinta vitale è più forte di questo declassamento. Chi legge sta con lei, chi legge le dice: scappa, ma stai attenta, torna in tempo. Chi legge ha paura, e allo stesso tempo spera nel superamento del limite.