Leggere di Julian Barnes in cucina

Annalena Benini

Le parole nelle ricette valgono quanto quelle nei romanzi

Matisse ebbe a dire che agli artisti bisognerebbe tagliare la lingua, e la stessa cosa – seppure in senso più metaforico – vale per tanti chef. Andrebbero incatenati ai fornelli e autorizzati solo a servire il cibo attraverso il passavivande man mano che lo si ordina

Julian Barnes, “Il pedante in cucina” (Einaudi)


  

Chi sa cucina; chi non sa, lava i piatti. Julian Barnes ha deciso, a un certo punto della sua vita adulta, dopo aver creduto a lungo che la cucina non si addicesse agli uomini di casa, di iniziare a preparare braciole di maiale con piselli e patate. E, a poco a poco, di imparare a cucinare. Piatti sempre un po’ più difficili, amici a cena, un centinaio di libri di ricette e parecchi acquisti di utensili (anche una gelatiera), si autodefinisce: il pedante in cucina. Pedante perché diffida in modo aggressivo di tutto quello che è ispirazione, libertà, immaginazione. Diffida dei cuochi che dicono di non seguire ricette, e soprattutto detesta quelli che scrivono le ricette in modo impreciso. Barnes appartiene alla categoria illuminista e anche ottimista di chi segue le ricette con dedizione e con fiducia, e che però pretende la spiegazione di ogni passaggio e una accuratezza specifica anche nella scelta delle parole (una volta ha telefonato a casa di una cuoca, autrice di un libro di ricette, per farsi spiegare un passaggio che riteneva oscuro. Lei ha risposto: veramente va bene così. E Barnes ha capito la differenza tra chi sa cucinare e chi ancora no). “Tutto comincia con parole semplici. Quanto è grande un ‘tocchetto’, a quanto corrisponde una ‘innaffiatina’ o un ‘goccio’, a che punto una ‘spruzzata’ diventa una pioggia? Una ‘tazza’ è un’espressione generica di approssimazione o una precisa unità di misura americana? Perché dirci di aggiungere un ‘bicchiere’ di qualcosa, quando esistono bicchieri di tutte le dimensioni?”. Anche sulla grandezza delle cipolle vorrebbe che venisse fatta più chiarezza, perché non è vero che esistono solo cipolle piccole, medie e grandi, e poiché “medie” è un termine comparativo, toccherà fare confronti incrociati con l’intera gamma delle cipolle in nostro possesso.

  

Se siamo pedanti come Julian Barnes, se siamo inglesi come Julian Barnes, se siamo convinti che un ricettario di cucina debba avere la stessa precisione di un manuale di chirurgia. Ma il senso è: perché la parola di una ricetta dovrebbe essere meno importante della parola di un romanzo? Perché il filetto di manzo dovrebbe meritare meno attenzione e serietà della scoperta dell’assassino in un thriller? Julian Barnes si prende in giro, ma con un po’ di compiacimento, e la sua autodenigrazione si ferma sempre a un livello non troppo compromettente. Sembra quasi che dica: mi sto prendendo in giro da solo, non osate farlo voi perché sono uno scrittore importante e vi sto concedendo già molto. Non c’è nulla di davvero disastroso, o di davvero meschino, a meno che non ci sembri una tragedia il fatto che nella cucina di Julian Barnes il frigorifero sia stato messo accanto ai fornelli, grave errore di valutazione che gli impedirà di realizzare il sogno della cucina perfetta. Questo libro è tratto dalla rubrica di Barnes sul Guardian, e forse risente della fatica settimanale, della necessità di trovare ogni volta una chiusa brillante, ma è vero che la scelta di che cosa cucinare a casa andrebbe fatta in base ai tre tipi di ospiti che potrebbero sedersi alla nostra tavola:

1) quelli a cui si è affezionati;

2) Quelli che si è obbligati a frequentare;

3) Quelli che si detestano.

 

C’è qualcosa di più demoralizzante di cucinare bene per un seccatore che non sa apprezzare? Nel caso 2) e 3) è concesso comprare piatti preparati da qualcun altro, ma Barnes si spinge a dire: anche nel caso 1) si può, se si riesce a superare un certo puritanesimo. E confessa di avere consegnato alla gastronomia sotto casa la pirofila con cui servire le lasagne ai funghi, per poi andare a riprenderla piena di lasagne, pagare il conto e offrirla come propria, dopo averla riscaldata in forno (ma aveva preparato da sé l’antipasto e il dolce). Anche in questo caso, l’impressione data dalla rivelazione è più o meno questa: quando noi lo facevamo già, Julian Barnes viveva ancora sugli alberi.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.