lettere rubate
“Non mi ami abbastanza”. La catarsi del gioco al massacro sulla pandemia
Tornare a teatro e guardare nello spettacolo di Giuseppe Dipasquale, tratto dall'opera di Ionesco, chi siamo diventati
Qui non si racconta l’agonia di un uomo, come in Le Roi se meurt: qui è una città intera che muore.
Eugene Ionesco, Gioco al massacro
Tornare a teatro, finalmente, e guardare chi siamo diventati. Tornare a teatro con quell’antica voluttà, la catarsi che ci fa soffrire e poi ci salva, ci manda di nuovo per strada rintronati e incredibilmente più leggeri, dopo lo strazio allegro di esserci riconosciuti. E’ quel che è accaduto a L’Aquila in queste sere, è quel che accadrà in tutta Italia con lo spettacolo tratto dal Gioco al massacro di Eugene Ionesco, per la regia di Giuseppe Dipasquale, con Ninni Bruschetta e Federica Debenedittis, soli sul palco. Un uomo e una donna, lui e lei, attraverso gli anni e attraverso la pandemia dei giorni, con gli abiti eleganti e la realtà dell’anima che salta agli occhi sulla scena. C’è una peste nel mondo, la peste raccontata da Daniel Defoe, la peste raccontata da Ionesco, la peste che abbiamo conosciuto nelle nostre case. Lui le dice: oggi sono morti un migliaio di uomini per strada, e lei languidamente interessata gli chiede, dondolando una gamba: individualmente?
“Alcuni individualmente, altri a pacchi di dieci-dodici”. Nella fortezza della casa, o sul punto di morire, di fallire, di scoppiare, questa coppia si ama, si annoia e si inganna e si racconta il delirio della fine del mondo. “Ma è una moda!” questa epidemia che non ci toglie la nostra allucinata quotidianità, e un certo cinico abbandono anche alla morte. Lui e lei si amano ancora? Si sono mai amati? Sono indifferenti a qualunque destino? Hanno pietà? Sedersi davanti a questo gioco al massacro significa lasciarsi rapire dalle domande che non volevamo farci, per poi riderne, sollevati. “Come fai a non essere felice se sono qui accanto a te”. Ci sono le rappresaglie, i luoghi comuni che ci sfiniscono e a cui crediamo totalmente perché ci appartengono nel profondo, ci sono i fantocci di pezza con cui danzare verso la soluzione finale. Non c’è mai tristezza.
Quando lei dice, in abito da sera: “Sono annoiata dall’angoscia”, come una signorina snob di Franca Valeri, io penso che allora nessuna pandemia potrà mai vincere sull’umanità, sulla nostra capacità di dire ancora una volta, anche adesso, anche sul letto di morte, anche dentro la più spaventosa cecità, “E’ perché non mi ami abbastanza”. Il mondo crolla, ma intanto tu non mi ami abbastanza. Il mondo crolla, ma tu ti annoi con me. Io non ti basto. Merito di meglio. Mentre la voce di Marlene Dietrich canta “Amado mio” e ci prende in giro e ride di noi. Questo sottile gioco sulla pandemia, prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo presieduto da Pietrangelo Buttafuoco, ci riporta indietro e poi ci lancia avanti, con la speranza di non essere cambiati mai un solo giorno in centinaia di anni.