lettere rubate
La perfida allegria senza cattiveria di Jerome K. Jerome
Nei saggi dello scrittore morto quasi cento anni fa c’è una domanda fondamentale: “Siamo davvero interessanti quanto crediamo di essere?”. La risposta è certamente no, ma così piena di levità e umorismo che nessuno può sentirsi offeso
Io amo l’eroina audace; tutti noi l’amiamo. L’eroina del primo periodo vittoriano – l’angelo vestito di bianco – era una noia mortale. Sapevamo esattamente che cosa avrebbe fatto: la cosa giusta. Si trattava sempre della cosa giusta e conforme alle tradizioni. L’avreste potuta mandare alla scuola domenicale e avrebbe risposto ogni volta, senza mai sbagliare. L’eroina con passioni, istinti, emozioni, va accolta con favore. Ma voglio che si renda conto che, in fin dei conti, lei è una di noi.
Jerome K. Jerome, “Gli scrittori scrivono troppo?”
(Mattioli 1885, 91 pp.)
L’eroina audace, invece di insistere nel chiedersi: che cosa c’è di sbagliato nella civiltà?, che mondo è questo, e così via, potrebbe semplicemente dire, ogni tanto: credo di essermi resa ridicola questa volta. Non ci rimetterebbe niente, scrive Jerome. Anzi, la rispetteremmo di più. Non è sempre colpa dell’uomo americano, della natura o della democrazia. E’ il 1905 e Jerome ha in mente un tipo di donna audace che risponde scandalizzata a queste critiche: “Lei sta dicendo tutto questo… a me, una signora? Santo Cielo! Che cosa ne è stato della cavalleria?”.
E’ impossibile leggere una sola pagina di Jerome, morto quasi cento anni fa, senza sentire quella ventata di perfida allegria senza cattiveria. Quel patto con la scrittura che significa soltanto: tutta la libertà che mi pare in cambio di tutto quello che ho. In questi saggi curati da Chiara Voltolini c’è una domanda fondamentale, per i libri e per la vita: “Siamo davvero interessanti quanto crediamo di essere?”. La risposta è certamente no, ma un no così pieno di levità e umorismo che nessuno può sentirsi offeso, nessuno risponderà: santo cielo, che cosa ne è stato della cavalleria. E in ogni caso, scrive Jerome, la letteratura non serve per adulare. Per adulare bastano le cene noiose, e adesso anche i complimenti da ripostare sui social.
“A volte ho pensato che sarebbe molto utile se tutti noi, in società, indossassimo un grazioso tesserino – appuntato sulla schiena per esempio – che riporti tutte le informazioni necessarie: il nostro nome (chiaramente leggibile) e come si pronuncia; la nostra età (non per forza quella reale, ma sufficientemente onesta ai fini di una buona conversazione); le nostre credenze religiose e politiche; e per finire una lista di tutti quegli argomenti su cui ci sentiamo più a nostro agio e qualche aneddoto sulla nostra carriera”. Mi scusi, le dispiacerebbe girarsi un momento? Ah, Fanatico wagneriano. Temo che non andremo d’accordo. Oppure: oh, incantevole, vedo che lei crede nel suffragio femminile, potremmo cenare insieme una di queste sere.
Jerome K. Jerome ha introdotto con grande successo nel mondo della letteratura il pericolosissimo uso degli aneddoti, che nei libri ma soprattutto nella vita rischiano di far naufragare qualunque relazione e possono velocemente portare a fantasie suicide in chi è costretto ad ascoltare l’aneddoto fino alla fine. Il fatto è che solo Jerome è Jerome, sia che parli di uomini in barca sia di editoria, scrittori, grandi romanzi, arte, musica, ingiustizia.
“Immagino che non sia prudente parlare di scrittori viventi, tranne forse di quelli che sono con noi da così tanto tempo che ci siamo praticamente dimenticati che non sono scrittori del passato”. La risposta alla domanda che dà il titolo a questa raccolta: gli scrittori scrivono troppo?, è un fuoco d’artificio di altre cento domande, considerazioni e aneddoti sugli scrittori di successo perché totalmente mancanti di senso dell’umorismo. E alla fine la risposta è più o meno questa: che ne sarà di noi? “Sto semplicemente parlando d’affari”.