Lettere rubate
Storia di Rosa, coetanea di Basaglia, e delle altre nei manicomi. Era mia nonna
Un libro di Valentina Furlanetto per raccontare storie di donne costrette a conoscere i manicomi, a cui l'autrice restituisce dignità e delicatezza
Nell’elenco delle motivazioni di ricovero delle cartelle cliniche rientrano: “non aiuta nelle faccende domestiche”, “instabilità di carattere”, “erotomania”, “discinta”, “traditrice”, “esce di casa ogni ora”, “Si rifiuta di dormire con il marito”, “non vuole avere figli”, “non acconsente a sposarsi”, “dà pubblico scandalo”, “orfana”, “ruba”, “idee originali”.
Valentina Furlanetto
“Cento giorni che non torno – storie di pazzia, di ribellione, di libertà” (Laterza, 270 pp.)
Rosa è nata nel 1924 a Guia, frazione di Valdobbiadene nella campagna veneta, in una casa senza bagno, con il pavimento di pietra, quattro figlie e un figlio. Lei ha le trecce castane lunghe, gli zigomi alti, forse era la più bella del paese. Franco Basaglia è nato lo stesso anno di Rosa, e non l’ha mai conosciuta ma Rosa ha conosciuto i manicomi nei quali Basaglia ha portato il cambiamento dell’idea stessa di cura. Rosa è stata investita da un’auto in campagna, doveva morire ma non è morta, ma il trauma cranico le ha lasciato crisi epilettiche e forti mal di testa, convulsioni. Soluzione: manicomio, elettroshock, la vergogna di una malata psichiatrica a cui sono stati tolti i diritti civili e l’amore di sé. Una piccola storia dentro la grande storia della legge 180 del 1978, che Valentina Furlanetto, giornalista radiofonica e scrittrice, racconta con l’accuratezza delle ricerche sui documenti, sui testi di Basaglia e nelle cartelle cliniche dell’ex manicomio Sant’Artemio a Treviso: lì sua madre, figlia di Rosa, andava a trovare la mamma, seduta su una sedia, lo sguardo perso oltre il vuoto, vinta. Ma Valentina Furlanetto aggiunge l’umanità dell’immedesimazione: era mia nonna, potevo essere io, anche io a volte sentivo le voci, anche io non sempre sono così brava a vivere.
Era sua nonna ma erano anche donne di cui i mariti volevano liberarsi, o perfino i figli, donne a cui nessuno veniva a portare un golfino, donne che scrivevano lettere a casa senza risposta o donne che invece alla fine ce l’hanno fatta e hanno riconquistato una vita libera e una dignità. A. B. madre di tre figli, casalinga di origini romagnole, entra nel manicomio di Treviso nel novembre del 1952 con questi sintomi: “Astenia, inappetenza, sonno irregolare, idee deliranti di gelosia per cui si recò anche da una fattucchiera per fare un ‘legame d’amore’ per suo marito”. Le fanno nove sedute di elettroshock per toglierle la gelosia. Ma è solo la prima di una serie di ricadute: trenta sedute di elettroshock nel giro di pochi anni, fino alla lettera al suo primario e alla richiesta struggente di un “certificato dichiarante che sono sana di mente, come lei ha sempre detto”. Un certificato da mostrare a tutti e da opporre a quel continuo sogghignare, non considerare, annientare con la forza del: sei pazza, allora adesso ti ricovero. Valentina Furlanetto restituisce dignità e delicatezza alle storie su cui è stata messa l’etichetta: follia. Quale follia? La nostra condizione umana.