Lettere rubate
La precisione e la distrazione del coltello. Elegia di un padre
Dario Voltolini ha scritto un libro asciutto, preciso. Tutte le parole restituiscono il dolore senza pronunciarlo, l’amore solo guardando un pallone di plastica che cade giù dal bagagliaio
Ma che cos’è l’attesa, questa condizione che è sempre lì sotto le piastrelle ma che poi emerge tutta insieme a un certo punto? Lui non stava in attesa sempre? Non sei stato sempre in attesa di qualcosa, tu come tutti?
Dario Voltolini, “Invernale” (La nave di Teseo, 140 pp)
La scena grandiosa con cui si apre questo romanzo, il sabato al mercato di Porta Palazzo (Torino) al banco della carne, fa vedere che cos’è un padre. Che cos’è stato, almeno, negli occhi di un figlio che da questo momento lo guarderà deteriorarsi, indebolirsi, infine congedarsi. Che cos’è la forza, quando a poco a poco se ne va. Il padre macellaio esce da una cella frigorifera con una bestia sulla spalla, come sempre, e di coltellata in coltellata smembra la bestia, come una danza fatta col coltello. L’equilibrio si inceppa per un istante e il dito si stacca dalla mano, ma non del tutto. Un urlo, ma poi nessun lamento perché il padre è invincibile, silenzioso, gli piace il calcio, non si lamenta mai. Un padre, il padre dello scrittore Dario Voltolini, nostro padre che si ammala. Il primo cedimento, gli esami del sangue e poi tutti gli altri, ma anche questa intimità fortissima in cui sembra che il figlio stia guardando morire sé stesso. “Tu non è che la pensi, questa attesa, tu non so nemmeno se la vivi o la subisci o la abiti: forse - ma proprio forse (non so niente, ma niente!, spaventosamente niente) - tu semplicemente la sei”.
Dario Voltolini ha scritto un libro asciutto, preciso come la lama dei coltelli del padre, che lui sa usare benissimo nella scrittura: tutte le parole restituiscono il dolore senza pronunciarlo, l’amore solo guardando un pallone di plastica che cade giù dal bagagliaio. Un uomo che ha vissuto di cose fatte, di cose tagliate, di cose che prima erano vive e che lui sa maneggiare e sezionare. Nella seconda metà degli anni Settanta, con le Nazionali senza filtro, con il banco al mercato come suo regno. “Ha occhio: chiedono tre etti e mezzo? E lui paf, sbatte sulla bilancia tre etti e mezzo di carne. L’ago accenna una pendolazione e poi si ferma dove deve fermarsi. Con precisione”. La forza espressiva di questo romanzo è compatta, delicata, durissima. A volte sembra la preghiera di un’assenza, la parabola di un piccolissimo spostamento a sinistra che rompe l’equilibrio di una vita e che però le rende grazie, la rivela nella sua bellezza fatta di sequenze. “Scruto mio padre mentre si muove in silenzio per casa. E’ indifferente? A cosa? Al concetto stesso di cura?”. Ma quello che appare come distrazione è in realtà concentrazione su una cosa sola. Forse è così.