L'incubo del programma dei sogni. Lettera dalla Rai. Democrazia diretta, aiuto
Al direttore - Wrong or wrong is my country.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - E’ nato il governo di Pinocchio e del Gatto e la Volpe. Stanno seminando qualche moneta nell’Orto dei miracoli allo scopo di trovare le coperture finanziarie per le misure contenute nel contratto.
Giuliano Cazzola
Il programma dei sogni è un programma da incubo. Ma il problema non sono tanto le coperture. Non è se si possa o non si possa fare qualcosa. Il problema è, prima di tutto, se sia giusto o no fare quello che hanno promesso. E la risposta, su giustizia, lavoro, infrastrutture, sanità, e molto altro, è semplicemente una: no.
Al direttore - Non credo che se ne accorga nessuno ma da un po’ di tempo a questa parte non riesco a prendere la parola. Ecchisene direte voi. Certo a chi vuoi che importi, lo penso anch’io. Il fatto è che a me litigare per finta, sbraitare per niente, fingere d’incazzarmi, non solo non piace ma non mi riesce. Ci vuole uno scopo foss’anche la vanità o la noia. Hanno fatto il governo e salvo imprevisti ne vedremo delle belle. Vedremo chi profitta e fa, in ordine di tempo, l’ultimo cambio di giacca, chi, già che c’è, dice che lo aveva previsto tutto questo e infine c’è chi scompare per un po’ e chi per sempre. E ora via, si apre la caccia ad Ottobre rosso: posti Signori, avanti ci sono posti. Noi siamo pronti. Anzi io sono pronto dal 4 dicembre del 2016. Lì, in un lampo, con in tasca il 40 per cento dei consensi lessi due cose. L’urgenza di uno scontro finale e la scomparsa di ogni possibilità di resistenza. Scegliemmo la scomparsa. I moderati sono fatti così: abdicano. Poi si vedrà. I rivoluzionari di solito muoiono, perlomeno una piazza tra cent’anni gliela intestano. Ora però è difficile sedere nel cda della Rai, essere in scadenza, avere visto e rivisto i conti in ordine, avere prodotto e messo in ordine programmi che sono piaciuti, numeri che nessuno può permettersi di sfiorare, se non casualmente, occasionalmente; avere introdotto Rai Play, che mette ad ogni ora del giorno e della notte i contenuti radiotelevisivi Rai a disposizione di quanti per un motivo qualsiasi ne abbiano voglia o bisogno; lasciare orfani di un campionato del mondo di calcio avendo in tasca sia la Champions come la Coppa Italia; avere messo in onda e reso disponibile il Giro d’Italia, una volata partita in Israele e conclusasi in una buca romana; avere perso per strada la media company, la riforma e il potenziamento del sistema dell’informazione non avendo però sacrificato sull’altare della demagogia né Vespa, né Fazio, dopo aver lasciato andare Giletti. Tutto non si può avere. Ecco dopo tutto questo, dopo aver perso un dg appena trasformato in ad cambiandolo al volo con un ad che fa il dg a tempo pieno con tenacia, costanza, coraggio e un dito, quello che si solleva per mandate a qual paese, steccato. Dopo tutto, che non è tutto ci mancherebbe, perché c’è anche la sottoscrizione di un contratto di servizio che definisce i ruoli e gli obiettivi dati dall’azionista all’azienda, perché c’è anche l’accordo sottoscritto con tutte le rappresentanze dei lavoratori – giornalisti ma anche autisti – che giaceva boccheggiando da anni; dopo aver ridotto le maestranze, rinnovato anche se non come avremmo dovuto gli organici; istruito la pratica per il canale in lingua inglese che solo a pensarci un attimo fa sentire finalmente meno chiusi, meno provinciali, meno complessati, perché è evidente il vantaggio che ci sarebbe se sul nostro paese invece di ascoltare le traduzioni a cazzo di cane si intendessero gli speech direttamente dalla nostra bocca. Mi fermo, mi taccio. Avrei voluto di più. Ma va bene così. Ora per essere eletti nel cda della Rai si fa la domanda. L’hanno già fatta due fuoriclasse: Michele Santoro e Giovanni Minoli, ma si iscrivono alla gara anche Franco Siddi, Rita Borioni e Arturo Diaconale, Giancarlo Mazzuca scrive dei bei libri. Carlo Freccero lavora da tre anni a piantare la bandiera sul cumulo di macerie: indicato nel cda dai trionfanti Cinque stelle gli va riconosciuta una certa autonomia anarco-individualista no futur passatista nichilista vanta il titolo di massmediologo agitandolo come una clava sedendo ovunque sia accesa una telecamera. Penso che vada bene così. L’arco costituzionale è lontano dalla scena. Ora è il tempo del vilipendio. Mi mancava. Nelle ultime ore abbiamo visto il trionfo di Floris, la spaccata di Giletti, la rappresentazione dell’ingenuità di Fazio che conosce meglio di chiunque altro l’espressione di chi cade dal pero, la tenuta autorevole del piglio disincantato di un gigante come Bruno Vespa. Che succede? Non c’è da stare allegri ma nemmeno prendere quelle espressioni drammatiche da lisca di pesce lesso. I canali generalisti potrebbero diventare due. Uno per uno. Dall’altro lato una pagina Bianca.
Guelfo Guelfi, membro del cda Rai
Al direttore - La notizia è passata sotto silenzio, eppure è clamorosa: nel governo pentaleghista c’è un ministro per i Rapporti con il Parlamento e la “democrazia diretta”. Un tragicomico ossimoro, come l’ha definito Carlo D’Onofrio, un bravo giornalista della Cisl. Nel suo discorso sul “Governo rappresentativo” (10 maggio 1793), Robespierre, sulla scia dell’insegnamento di Rousseau, sosteneva che “il dominio del popolo dura un giorno solo” e che, comunque, “i suoi delegati sono corruttibili”. La domanda allora è: Riccardo Fraccaro, tra i suoi compiti, avrà anche quello di predisporre strumenti di controllo sull’attività dei parlamentari che scongiurino il pericolo di un “dispotismo democratico”, come temeva l’avvocato di Arras? Mi consenta però una considerazione anche sul Pd. In questi giorni va assai di moda il mantra “la sinistra deve ripartire dal basso”. Niente affatto: al contrario, a mio avviso “deve ripartire dall’alto”. Nel senso che senza una nuova leadership nazionale (e nuovi gruppi dirigenti locali) è destinata a fare la fine di Stenterello, la maschera fiorentina perseguitata dalla sfortuna ma senza la sua proverbiale arguzia. Nomi e volti più credibili, insomma, per la costruzione di un polo europeista e dell’innovazione sociale che non rinneghi le sue antiche radici popolari. Impresa che forse richiede meno tweet e più idee, meno slogan e più proposte, meno battute e più progetti.
Michele Magno
Al direttore - “Castigat ridendo mores”, pure quelli sgrammaticati di “Giggino”, così si potrebbe interpretare il bel commento sul nuovo governo scritto da Giuliano Ferrara sul Foglio del 1° giugno, ma anche, tutto sommato, come un volere esorcizzare un eventuale esito pesantemente negativo dell’impresa che sta per decollare. E’ comunque da augurarsi che non si debba fare riferimento a quei tre/quattro ministri che hanno dato conto negli anni della loro levatura intellettuale e delle indiscutibili capacità – e, fra questi, metto al primo posto Paolo Savona e Giovanni Tria – per tranquillizzarsi, in considerazione della loro razionalità e del loro equilibrio, su ciò che potrebbe accadere: nocchieri, dunque, che potranno prevenire il naufragio, ancorché allegro, che Giuliano teme. Naturalmente, se così , invece, dovesse accadere, saremmo già a una situazione pre-fallimentare. Ciononostante, pur con alcune riserve bisogna attendere la prova del budino e vedere se i “domini” pretenderanno un’applicazione del famoso contratto per il cambiamento pedissequa, e dunque non poco rischiosa, pensando a ministri “esecutori” oppure se quelle intese passeranno attraverso il crivello del realismo e del pragmatismo e poi saranno sottoposte all’indicazione di priorità e a scaglionamenti nel tempo. Potrà alla fine sopravvenire, benché finora clandestina, l’arte della politica incentrata innanzitutto sulla mediazione. Dunque, Giuliano non dovrebbe dismettere, almeno per ora, il suo buonumore. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia