Carceri e presunzione di colpevolezza. Ragioni per una sfiducia dei mercati

Al direttore - Trascrivo dall’intervento pronunciato alla Camera dei deputati dall’onorevole Francesco Paolo Sisto di Forza Italia durante la discussione sulla fiducia al governo Conte: “Nel paragrafo 11 del contratto ho letto un’espressione terrificante: ‘Carcere vero’. L’idea carceraria è assolutamente prevalente in quel contratto, è un’idea che dà dell’articolo 27 della Costituzione una lettura terribile, come se il carcere fosse la finalizzazione della giustizia. Noi respingiamo questa idea, non è la nostra idea! Più pene, meno benefici, riduzione dell’area di imputabilità dei minorenni anche sotto il profilo dell’esecuzione delle pene! Una certezza della pena che è scambiabile con la mancanza di pene alternative. Qui stiamo negando i fondamenti del rapporto fra uomo, pena, sanzione, fatto di reato, cioè torniamo indietro di cinquant’anni! Niente provvedimenti deflattivi; la prescrizione dev’essere restituita – lo ha detto lei e se n’è assunto la responsabilità piuttosto grave – alla sua originaria funzione. Ma qual è la funzione della prescrizione? Evitare che ci sia un ‘fine processo mai’, perché la ragionevole durata del processo è un diritto e dipende dallo stato, non dai cittadini! Noi ci batteremo pesantemente contro questa pretesa di dare, a chi?, alle procure il potere di governare questo paese: noi non lo consentiremo. […] Lei ha detto: più carcere e più diritti. Vado a leggere il contratto: più carceri e meno diritti per i detenuti, e questo non va bene! […] Vigili perché non accada che il ministero della Giustizia sia preda delle superprocure e delle procure, ma preda dei cittadini, che hanno diritto a una giustizia che sia modellata sulla presunzione di non responsabilità o di non colpevolezza. […] Un paese che sta diventando un battello sul Mississippi del giustizialismo. Voi questo volete proporre: un fiume di giustizialismo in cui l’Italia deve galleggiare. Lei si è preoccupato degli investitori, ma quali investitori? Da un paese di questo genere fuggiranno gli italiani! Chi vuole essere oggetto di cotante indagini? Diceva Alessandro Manzoni: ‘Il buonsenso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune’. Io penso che il senso comune che voi volete infilare nella giustizia non è quello della Costituzione”. Scusi la lunghezza, ma prendere coscienza di ciò a cui stiamo andando incontro, dopo quello che abbiamo già vissuto dal 1992 a oggi, valga un minuto di lettura in più.

Ubaldo Casotto

 

Non incoraggiante. Così come non è molto incoraggiante che il nuovo presidente del Consiglio, prendendo alla lettera il pensiero dei padri fondatori del grillismo che dalle procure sostengono che “Non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”, ieri abbia detto una frase che passerà alla storia: in Italia la Costituzione non garantisce la presunzione di innocenza, ma impone una “presunzione di colpevolezza”. E’ stato un lapsus. O forse no. Forse ha ragione Avvenire. Che ieri ha scritto: “Più che un avvocato pare di ascoltare un inquisitore”.

 


 

Al direttore - I lettori del Foglio lo sanno, nel 2013 ho fatto da testimone del primo matrimonio tra baffuti in Italia. Per l’esattezza, piazza Farnese, all’ambasciata di Francia, ossia “all’estero” fra virgolette. E’ dunque chiaro che non sono affatto ostile al sogno degli omosessuali bramosi di raggiungere l’agognata rispettabilità borghese. Ciò detto, capisco che gli stucchevoli discorsi sulla “famiglia gay” (solo un deficiente avrà coniato questa brutta parola “gay”) facciano infuriare il ministro Fontana. Se fossero vivi e vegeti, Verlaine, Rimbaud, Cocteau, Pasolini e Genet si sarebbero infuriati pure loro. La bellezza dell’omosessualità è la sua natura trasgressiva. L’onorabilità perbene non le confà.

Gabriel Matzneff

 


 

Al direttore - Dopo l’esposizione programmatica alle Camere da parte del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarebbe disdicevole evocare la nota favola di Fedro “Ranae regem petiverunt a Iove”, essendo stata la relazione un riassunto commentato del contratto di governo per il cambiamento. La genericità e la non unitarietà del quadro di politica economica e di finanza pubblica, la leggerezza con cui è stato affrontato il problema del debito, avulso da un legame chiaro con la crescita, la produttività totale dei fattori, e con l’occupazione, la mancanza di almeno alcune indicazioni per le coperture delle diverse iniziative, pur senza scendere in quella sede in una dettagliata indicazione delle fonti di introito, la stessa indeterminatezza sui temi europei di maggiore attualità, costituiscono una pecca dell’esposizione che si spera venga sanata. E’ da ritenere a tal proposito che i tecnici che fanno parte della compagine governativa, a cominciare da personaggi autorevoli quali Paolo Savona e Giovanni Tria, pur avendo ovviamente proprie idee e tendenze, come il dibattito delle ultime settimane ha evidenziato, certamente non potrebbero accettare impostazioni generiche o superficiali ovvero, ancora, difficoltà di pronunciarsi per mancanza di una solida scelta politica. D’altro canto, il contratto per il cambiamento può costituire la base dell’azione dell’esecutivo, ma non può essere considerato un testo talmente vincolante da escludere la indicazione di priorità di contenuti e di tempi, la sottoposizione a prove di sostenibilità, l’ineludibile confronto con le coperture, la eliminazione di punti che abbiano ceduto a una prova di resistenza e così via. E ciò pur permanendo il ruolo dei “diarchi” che, per ora, difficilmente si trasformeranno, visto il significato che Conte ha dato alla sua funzione, in “triarchi”. Dobbiamo, allora, confidare veramente su tali esponenti? Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

Di più su questi argomenti: