Il nostro impagabile ministro della Polizia
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 14 luglio 2018
Al direttore - Depilare Merlo?
Giuseppe De Filippi
Di Rocco Casalino non parleremo neanche sotto tortura: l’unico titolato a giudicarlo è il suo estetista. Ma le parole affettuose e cariche di ironia rivolte due giorni fa a Salvatore Merlo – “Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Perché esiste?” – sono un buon pretesto per ricordare al portavoce del presidente del Consiglio e al suo datore di lavoro che fare gli spiritosi con i giornali significa fare gli spiritosi con alcuni valori non negoziabili, non depilabili, di una democrazia: la libertà di stampa, di opinione, di critica. E questo vale ancora di più, naturalmente, se chi fa lo spiritoso rappresenta un partito che vuole superare la democrazia rappresentativa, che vuole abolire il voto segreto, che vuole abolire il diritto di un parlamentare di rappresentare la nazione senza vincolo di mandato, che vuole chiamare i parlamentari a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni e che sputa ogni giorno sullo stato di diritto. A che serve il Foglio? A mille cose, ma anche a difendere tutto questo. Che futuro avrà il Foglio? Un futuro fantastico – e a partire dal 19 agosto (notizia!) si raddoppia con una fantastica edizione domenicale dedicata allo sport. Che cosa si può fare per essere più spiritosi di Casalino? Cogliere al volo l’occasione di fare un abbonamento speciale. Lo trovate sul sito (www.ilfoglio.it). Si chiama “Il Foglio Vitalizio”. E’ un abbonamento con lo sconto anticasta. Inserite il codice “Rocco” per ricevere uno sconto populista del 20 per cento. Un bacio anche a Rocco – al quale questa mattina abbiamo ovviamente attivato gratis un abbonamento anti populista.
Al direttore - Il nostro ministro della Polizia è impagabile. Ieri a Roma ha preso due ceffoni dal presidente Mattarella, domani sarà a Mosca per prendere due carezze dal presidente Putin. Non escludo che possa perfino indossare la maglia a scacchi biancorossi della Croazia mentre si pavoneggia allo stadio Luzniki tra i suoi amici di Visegrád. Forse in tribuna autorità o forse sugli spalti, pur di non incontrare l’odiato Macron. Io, invece, tiferò per la Francia. Non ho mai creduto nella formula trita dello sport che affratella i popoli. Del resto, che lo sport sia una metafora della guerra non è una novità. Lo hanno sostenuto filosofi come Jean-Paul Sartre, teologi come Bernhard Welte, romanzieri come Nich Hornby. Nei Balcani, però, lo sport non è solo una metafora della guerra. Nei Balcani la guerra è anche la prosecuzione dello sport con altri mezzi, come sostiene Gigi Riva, un giornalista (da non confondere con il grande bomber di Leggiuno) che li conosce come le sue tasche. In nessuna regione europea il rapporto tra sport e potere è stato tanto stretto e perverso, e in nessuna regione europea il calcio è stato utilizzato con tanta spregiudicatezza dai movimenti nazionalisti come strumento di consenso. Soprattutto in Serbia e Croazia, che vantavano la più forte tradizione sportiva e identitaria. All’ingresso dello stadio Maksimir di Zagabria c’è una targa che recita: “Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990”. La dedica celebra la battaglia dei supporter della Dinamo, i “Bad Blue Boys”, contro i famigerati “Delije” (eroi) della Stella Rossa di Belgrado comandati da Zeliko Raznjatovic, detto Arkan (la Tigre): un personaggio dal passato criminale e dal futuro da boia. Una giornata di straordinaria follia, con decine di feriti e migliaia di scatenati ultras a darsele di santa ragione, che costò una lunga squalifica a Zvonimir Boban per aver fratturato con una ginocchiata la mascella di un agente. Ecco perché, con tutto il rispetto per i suoi talentuosi compagni di oggi, dico “Allez, les bleus!”.
Michele Magno