Ministro della malavita da Saviano a Scajola. Differenze e lezioni di Salvemini

Le lettere del 21 luglio al direttore del Foglio 

Al direttore - Savona: uscire dal Molise!

Giuseppe De Filippi


  

Al direttore - Ricordo che anni fa il Foglio dedicò una prima pagina al caso di un altro famigerato ministro della malavita, quando Claudio Scajola pensò di togliere la scorta a Marco Biagi. Matteo Salvini ha scelto di querelare, su carta intestata del Viminale, Roberto Saviano, per aver usato questa definizione. Mi chiedo oggi, anni dopo, ma Scajola vi ha mai querelati?

Carlo Martini

  

Ricorda bene caro Carlo. Ma a differenza di Salvini, che ci auguriamo non tolga la scorta a Roberto Saviano, Scajola sapeva bene che la nostra invettiva non era ispirata all’arte dell’insulto ma era ispirata a una fantastica opera di Gaetano Salvemini, che nel 1910 scrisse un fulminante saggio politico contro Giovanni Giolitti. Salvini, ragionando con l’intestino, ha querelato Saviano. Scajola, ragionando con la testa, ha scelto il confronto con chi non la pensava come lui. Ricordando forse un’altra lezione di Salvemini: “Sopprimiamo la discussione, e non ci resterà che la scomunica (in mancanza del rogo), o il manganello, o il colpo alla nuca”.


  

Al direttore - Va bene il bipolarismo, ma è troppo chiedere di vivere in un paese che non sia costretto a scegliere tra Saviano e Salvini? Cordialità.

Marco Sala


   

Al direttore - Non ci sono prove ma qualche convergenza sul piano logico. Ecco la Corte di Palermo conferma che il diritto è elastico come la pelle dei maroni.

Frank Cimini


  

Al direttore - L'invettiva contro la casta, propria soprattutto dei 5 stelle quando non erano al Governo, “desinit in piscem”. A questo punto, veramente, come Ella scrive in un editoriale del 20 luglio, un baluardo di competenza, legalità, correttezza e ragionevolezza può essere paradossalmente apprestato dalla burocrazia, certamente preferibile ai ventilati prodotti di un becero metodo spartitorio tra le forze della maggioranza, che si spera, però, non consegua i risultati ai quali mira. Emblema sono i quattro rinvii delle decisioni sugli incarichi al vertice della Cassa depositi e prestiti, mai verificatisi nella storia della Cassa di oltre un secolo e mezzo, e l'intento di candidare, tra le altre persone, un impiegato di banca alla testa della Direzione generale del Tesoro. Poi, però, è stata trovata una specie di mediazione interpartitica, con un bilanciamento che, se da un lato sceglie la persona giusta per la predetta direzione con Alessandro Rivera, un apprezzato funzionario pubblico di alto livello, dall'altro, sacrifica – per un sinallagma da metodo delle spoglie all'italiana, secondo il patronage partitico – Dario Scannapieco diffusamente stimato per elevata competenza ed esperienza la cui nomina era ritenuta pressoché scontata, designando Fabrizio Palermo, come amministratore delegato. Ma se quanto sta accadendo si fosse verificato in altre epoche, le reazioni sarebbero state diffuse e incisive, nella politica e nella società, mentre ora appare dominare quasi il distacco di un atarassico spettatore e il principale partito di opposizione sembra disorientato e catatonico. Si è arrivati a mettere in difficoltà il Ministro Giovanni Tria, uno dei pochissimi competenti e di grande solidità intellettuale, senza, però, che nulla si contesti da altre parti, quasi stesse prendendo piede una sorta di dormiveglia, che però non può durare a lungo, per i gravissimi danni che ne conseguirebbero. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia


    

Al direttore - “Per la destra è importante che disagio e sofferenza non entrino nel paese sovrano. Per la sinistra, invece, la sofferenza è sempre un problema: chi soffre, per la sinistra, esiste sempre, al di là della provenienza” (tuìt di Matteo Richetti). Ora, condannare l’intolleranza verso ogni forma di diversità, le ossessioni securitarie, le smodate passioni identitarie, i toni rissosi e triviali, il folclore demagogico del ministro della Polizia è oggi perfino un dovere etico. Ma condannare, come fa uno stimato dirigente del Pd, resuscitando la retorica del popolo umile e sofferente è, come disse Joseph Fouché commentando la fucilazione del duca di Enghien (1804), peggio di un delitto: è un errore politico. E’ solo un modo miope e culturalmente subalterno per cavarsi dai guai e dare ragione al politologo inglese Paul Taggart, il quale attribuisce al populismo una capacità camaleontica che lo rende “servitore di molti padroni”, “uno strumento dei progressisti, dei reazionari, degli autocrati, della sinistra e della destra”. Sforziamoci, almeno, di non essere populisti a nostra insaputa.

Michele Magno

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