Il capro espiatorio ultimo rifugio degli incompetenti. Democrazia e Trump, calma

A direttore -

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Il professor Cassese, nell’intervista al Foglio del 28 agosto, giustamente sostiene che le decisioni in materia di concessioni non solo autostradali sono importanti e complesse e che andrebbero studiate attentamente dopo che, a proposito della tragedia di Genova, le due indagini, rispettivamente amministrativa e giudiziaria, saranno giunte al termine. Il vicepremier, Luigi Di Maio, in una intervista al Fatto, ritiene, invece, che i presupposti per la revoca della concessione ad Autostrade “ci sono tutti” e afferma che poi si passerà alla realizzazione della nazionalizzazione. Meglio di così non potrebbero essere plasticamente rappresentati due modi di procedere che presuppongono due diversi mondi, quello di chi vuole la rigorosa sanzione delle responsabilità, non appena conclusi gli accertamenti, e un grande impegno progettuale per costruire scelte alternative e quello di chi pensa che la rapidità di decisioni che scavalchino l’accertamento delle responsabilità andando ben oltre lo stesso giustizialismo, ma siano gradite al popolo, faccia comunque premio su tutto, innanzitutto per i ritorni elettorali. Poi, quando i “boomerang” saranno in azione e si dovessero pagare le conseguenze di una scelta affrettata e priva di sufficienti basi giuridiche, ci sarà sempre qualche altro da incolpare e da additare all’opinione pubblica come il responsabile di tutto. Questa è purtroppo la fotografia oggi, estensibile “mutatis mutandis” a molti altri argomenti e problemi, della vita politica italiana. E’ una “spes contra spem” augurarsi che possa mutare? Con i più cordiali saluti

Angelo De Mattia

 

La cultura che si trova alla base del governo estremista è una cultura che punta a occuparsi più di responsabilità che di soluzioni. Isaac Asimov diceva che la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci. Noi potremmo dire che oggi è il capro espiatorio l’ultimo rifugio degli incompetenti.

 


 

Al direttore - Paul Krugman lancia sul New York Times (ristampa sulla Repubblica” del 29-8 con il titolo “Se l’America perdesse la libertà”) un grido di allarme per la possibile involuzione illiberale degli Stati Uniti sulla linea dei governi est-europei alla Orbán dove “la democrazia come la intendiamo noi è già morta”. Il riferimento è ad alcuni casi di stravolgimenti “trumpiani” del Grand Old Party che rinnegano la tradizionale fedeltà repubblicana agli ideali liberaldemocratici in nome del nazionalismo bianco. Qui non nego che vi siano stati alcuni episodi circoscritti nel Partito repubblicano che portano un segno illiberale. A me tuttavia pare che sia alquanto difficile, per non dire impossibile, che un sistema così complesso come quello americano di check and balance possa essere alterato in maniera permanente come è accaduto in alcuni paesi europei. Oltre alle ben note garanzie liberali della divisione dei poteri e della struttura federale, il sistema politico-istituzionale americano è inscindibilmente basato su un meccanismo elettorale i cui effetti positivi per la democrazia liberale non sono stati sufficientemente illustrati: il fatto cioè che le elezioni di ogni ordine e grado si tengono automaticamente a data fissa e che nessun potere può spostarle o alterarle a proprio vantaggio. Accada quel che accada, da oltre duecento anni il presidente è eletto ogni quattro anni, i senatori ogni sei anni, i membri della Camera dei rappresentanti ogni due anni, i governatori, sindaci e una miriade di altre cariche elettive ogni quattro anni, tutti con votazioni a data fissa nella prima settimana di novembre. Questo particolare costituzionale, unico anche in occidente, ha un decisivo effetto nella dialettica liberale/illiberale. Il potere (esecutivo, legislativo, locale, federale) non può disporre a proprio piacimento dello strumento elettorale; chiunque abusa della sua carica a cominciare dal presidente viene rimesso in gioco a data fissa senza possibilità di manipolazioni; e la sovranità torna sempre nelle mani degli elettori liberi di decidere. Cosa teme oggi Trump? Le elezioni di mezzo termine che possono ribaltare le attuali maggioranze repubblicane delle due Camere e quindi mettere in pericolo la sua stessa presidenza sia all’interno del Partito repubblicano che nel rapporto con il Partito democratico. La storia insegna che vi sono stati gravi casi di abusi istituzionali in altre epoche da parte di presidenti e di altri poteri (Red Scare post-WW1, movimenti fascistoidi anni Trenta, maccartismo), ma che tutte le volte il sistema politico si è autocorretto anche grazie alle elezioni a data fissa che, per una sorta di miracolo, hanno sempre garantito l’alternanza dei partiti (nel Novecento tanti presidenti repubblicani quanti democratici, eguali anni di presidenze degli uni e degli altri). Mi pare dunque assai improbabile che, malgrado quello che Krugman chiama il “comportamento criminale di Trump”, l’America possa divenire come l’Ungheria e la Polonia.

Massimo Teodori

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